Klimt, il pittore che vale oro

Esce per Brandstätter la prima biografia: i committenti ebrei, le donne, le fortune critiche

Per quanto possa sembrare impossibile, nell’immensa mole di pubblicazioni su Vienna fra Ottocento e Novecento, mancava ancora una biografia di Gustav Klimt, soprattutto una presentazione che sintetizzasse gli studi compiuti negli ultimi decenni sull’artista figurativo austriaco forse più amato dal grande pubblico a livello internazionale: non soltanto gli approfondimenti attorno al 2012, in occasione del 150° anniversario della sua nascita, allorché una nutrita serie di mostre e di pubblicazioni aveva fatto il punto separatamente su diversi aspetti della sua vita, della sua produzione, dei suoi rapporti con la Vienna avviata alla catastrofe della dissoluzione dell’impero austro-ungarico.

Per tutto il primo decennio degli anni duemila, il nome Klimt era avanzato più e più volte, con incalzante frequenza, sotto i riflettori delle cronache, fin da quando una nuova legge sulla restituzione di opere d’arte razziate durante il nazismo e mai restituite ai legittimi proprietari o ai loro eredi aveva innescato una serie di cause milionarie e aveva obbligato esperti d’arte e storici a immergersi nella voragine nazionalsocialista di sistematici saccheggi ai danni di collezionisti soprattutto ebrei. Uno dei più annosi e clamorosi procedimenti giudiziari aveva riguardato proprio 5 quadri di Klimt appartenuti alla famiglia Bloch-Bauer, divenuti parte delle raccolte del Belvedere. Nel 2006 quei dipinti erano stati restituiti e la loro vendita oltreoceano qualche tempo dopo aveva fatto registrare quotazioni stratosfericamente favolose, determinando nuovi parametri per la valutazione di tutta l’opera del cofondatore della Secessione viennese: il solo dipinto “Adele I” su fondo oro venne acquistato da Ronald Lauder per 135 milioni di dollari.

La biografia ora pubblicata dall’editore Brandstätter col titolo “Gustav Klimt. Die Biographie” (pagg. 326, euro 29,90) per il centenario della morte di Klimt, che si celebra quest’anno, tiene conto di questi sviluppi storico-artistici e cerca di sfatare anche altri miti: «Ci premeva sottolineare il rapporto tra il successo di Klimt come artista, che lo portò a essere uno dei più richiesti pittori del suo tempo, e il destino dei suoi committenti, quasi tutti di fede ebraica e travolti poi dalle persecuzioni naziste. Un destino che dopo la promulgazione della legge sulla restituzione alla fine del 1998, portò a una nuova attenzione dei media e dell’opinione pubblica per l’artista e alla lievitazione delle sue quotazioni» spiega Mona Horncastle, esperta di Vienna attorno al 1900 e coautrice del volume, assieme ad Alfred Weidinger, oggi direttore del Museum der bildenden Kunste di Lipsia ma fino all’anno scorso vicedirettore del Belvedere e prima ancora del museo Albertina, nonché grande conoscitore della produzione di Klimt: «Ma abbiamo cercato anche di sfatare qualche mito, tacendo su aneddoti che tenacemente sono collegati alla sua vita, ma che non hanno trovato riscontro nei fatti e nei documenti».

Fra questi, il suo rapporto con le donne: innanzitutto le donne della sua famiglia, con cui visse e che sostenne anche finanziariamente fino alla morte, senza mai decidersi a sposare nessuna delle numerose donne con cui intesseva relazioni: né Emilie Flöge, che gli fu vicina per molti anni, né alcuna delle sue modelle, da cui ebbe numerosi figli, talvolta nati negli stessi mesi. Documentata è la sopravvivenza di 6 discendenti. Nonostante ciò, sostengono Horncastle e Weidinger, Klimt non può essere considerato un tombeur de femmes: «A noi pare un’etichetta ingiusta. Si può affermare invece che amò sinceramente le donne». Horncastle e Weidinger ripercorrono anche le alterne fortune dell’apprezzamento di Klimt dopo la sua morte: «L’Austria ufficiale del periodo in cui visse non lo amava. Dopo il 1918 l’attenzione dell’opinione pubblica e del mondo dell’arte andò scemando. Del resto la maggior parte delle sue opere erano parte di collezioni private. Il suo nome continuò a circolare quindi in ambiti ristretti. Durante il Terzo Reich, i nazisti non dichiararono Klimt artista degenerato, ma attribuirono ai suoi dipinti valutazioni modeste».

Nel dopoguerra, il revival dell’interesse per Klimt iniziò alla metà degli anni 60, con mostre in diversi Paesi, ma si trattò di un risveglio offuscato da evidenti ombre sulla provenienza di numerose opere, che rendevano ardua la loro riproposizione in pubblico. Poi venne la leggendaria mostra viennese “Sogno e realtà” nel 1985, con la presentazione fra l’altro del klimtiano Fregio di Beethoven, fino a quel momento tenuto nei depositi del Belvedere, restaurato per l’occasione e subito dopo la chiusura ell’esposizione ricollocato nella palazzina della Secessione per la quale era stato creato nel 1902. Ed ebbe inizio una vera e propria klimt-mania. Gli autori della biografia sostengono tuttavia con fermezza: «Senza gli espropri nazisti ai danni dei collezionisti ebrei, la ricezione di Klimt nel dopoguerra sarebbe stata diversa. Come si spiega per esempio il fatto che il ritratto di Gertrude Löw, del 1902, valutato il corrispettivo di 27.000 euro nel 1938, e 38.000 euro negli anni ’60, nel 2015 sia stato venduto per 34,74 milioni di euro a Sotheby’s di Londra?».

©RIPRODUZIONE RISERVATA



Riproduzione riservata © Il Piccolo