Kledi: «Danzatori come calciatori con la differenza che fanno la fame»
MONFALCONE. «Dati alla mano, in Italia ci sono 25mila scuole di danza, il numero di iscritti non è nemmeno paragonabile a quello dei calciatori, eppure questi numeri non hanno ancora convinto i nostri politici a regolamentare questa disciplina per ciò che rappresenta: un lavoro che merita rispetto. E soprattutto una retribuzione adeguata».
A parlare è Kledi Kadiu, il ballerino di origine albanese entrato nel cuore del pubblico italiano, soprattutto femminile, dopo che, a metà anni Novanta, la trasmissione Amici di Maria De Filippi lo consacrò al successo. Oggi ha 45 anni ed è fresco di una nomina di rilievo: dal 6 agosto scorso rappresenta il Mibac in seno al Cda della Fondazione dell’Accademia nazionale di danza. Per amore si è trasferito a Rimini, dove il 28 giugno del 2018 ha sposato Charlotte Lazzari, ballerina di origine francese che è anche mamma di Léa, venuta al mondo dal loro amore tre anni fa.
Kledi si divide fra Roma, dove dirige una scuola di danza, e il resto d’Italia, dove viene chiamato a tenere alto il mondo della danza. Domani (alle 10.30 nella palestra della scuola Duca D’Aosta) sarà di nuovo a Monfalcone, padrino del Festival della danza, quinta edizione dell’unica rassegna di questo tipo in regione. L’intento è valorizzare l’antica disciplina in tutte le sue variegate declinazioni radunando, nella cittadina isontina, per due giorni a partire da oggi, allieve e allievi di 35 scuole di danza del Friuli Venezia Giulia e della Slovenia.
Kledi, tanti sono gli appassionati che nel tempo libero si dedicano alla danza. Ma guai a considerarla un lavoro?
«In Italia la danza non è vista come una professione vera e propria. Non c’è la cultura che nel frattempo è maturata all’estero, dove fare il danzatore significa avere un impiego ben retribuito. Eppure la carriera di un ballerino è breve come quella calcistica. Ed è anche un lavoro stagionale».
Quanto percepisce un danzatore in Italia?
«Eccezion fatta per i corpi di ballo più prestigiosi, il Teatro della Scala, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli, decine di compagnie riescono a malapena a sopravvivere senza uno straccio di contributi pubblici. Mi chiedo spesso come facciano tanti miei colleghi. Un danzatore di una compagnia può percepire 5-600 euro al mese, se va bene 1.000, ma supponiamo che viva a Roma, cosa molto probabile, come fa a pagarsi l’affitto con uno stipendio del genere?».
Quali sono le conseguenze?
«Il risultato è che tutta l’Europa invidia la scuola italiana, ma i nostri danzatori sono costretti a emigrare in Germania, Spagna, Francia, Olanda, dove prendono uno stipendio più dignitoso, di 1.800-2.000 euro al mese».
In Albania quali condizioni ricorda?
«Sono per certi versi stato fortunato a formarmi in quel posto a quell’epoca. Ho frequentato l’Accademia di danza nazionale a Tirana dal 1984 al 1991, anno in cui mi sono diplomato. C’era il regime, che però, bisogna riconoscerlo, dava contributi a chi occupava il tempo libero dedicandosi all’arte e allo sport. L’intento era formare cittadini in grado di tenere alta la bandiera nazionale nel mondo».
Credo che il nuovo governo italiano cambierà le cose?
«Assolutamente no, è un'amara verità ma non vedo prospettive in questo senso».
Cosa consiglia a chi vuole danzare per professione in Italia?
«Innanzitutto bisogna avere le caratteristiche giuste. Di questo ci si accorge da soli, ma dipende anche dai maestri. Tutti insegnano, ma non tutti hanno i requisiti per individuare dei talenti. È importante uscire dalla scuola dove si è cresciuti per confrontarsi nelle professionali, come l’Accademia, che offrono un insegnamento quotidiano».
E cosa consiglia a un adolescente che non è poi così portato?
«La danza è una delicata passione che permette di socializzare crescendo in maniera sana e positiva. Con questo spirito, vale sempre la pena di cimentarsi, a tutte le età». —
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