Josef Radetzky eroe della discordia compie 250 anni

di PIETRO SPIRITO
A duecentocinquant’anni dalla nascita Josef Radetzky continua a dividere Storia e memorie. Il nobile boemo, a lungo governatore del Lombardo Veneto, sposato alla nobile friulana Francesca Romana von Strassoldo-Gräfenberg, aleggia ancora come uno spettro inquieto in giro fra Austria e Italia. Lui, cui Johann Strauss dedicò la popolare “Marcia di Radetzky” che tradizionalmente ogni anno chiude il concerto di Capodanno al Musikverein di Vienna e, per debito lascito, al concerto di Capodanno a Trieste, è rimasto uno dei pochi personaggi in grado di rinfocolare antiche passioni e divisioni. In Austria il feldmaresciallo ha un posto tutto suo fra i padri della patria, viene ricordato come il buono e caro Vater Radetzky - Papà Radetzy -, come l’ultimo schwarzgelber, portatore dei colori imperiali, e l’ultimo kaiserteu, fedele all’imperatore. Il motto che coniò a suo tempo il drammaturgo Franz Grillparzer, In deinem Lager ist Österreich, nella tua tenda c’è il destino dell’Austria, continua ad essere unanimamente riconosciuto dai discendenti dei suoi compatrioti. Persino in Friuli, fra Aquileia e Palmanova, per non parlare del castello di Strassoldo, si tramanda il ricordo di un uomo giusto. Ma da Veneto e Lombardia in giù è tutt’altra musica: qui Radetzky rimane il nemico giurato degli italiani, il boia impiccatore assetato di sangue, il più fiero avversario del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, un militare spietato e un politico mancato.
Josef Radetzky nacque il 2 novembre del 1766 a Sedl›. any, allora nota con il nome tedesco di Trebnitz, oggi nella Repubblica Ceca, da una nobile famiglia boema. Venne spedito a studiare prima a Brno e poi a Vienna dove, studente poco brillante, scoprì presto una predilizione per la storia e i grandi condottieri, primi fra tutti Giustiniano e il Re Sole. Segnato sin da giovanissimo da un irresistibile amore per la guerra, a diciotto anni entrò come cadetto nel reggimento corazzieri Caramelli. Partecipò alla guerra austro-turca del 1787-1791, e da allora non lasciò più i campi di battaglia a cavallo di due secoli di guerre: prima i turchi contro la Francia rivoluzionaria, poi contro Napoleone e infine contro Carlo Alberto, suo compagno d'armi in un reggimento ussaro, battuto a Custoza, vittoria che gli guadagnò fama e gloria più, in omaggio, la famosa marcia di Strauss. Fu tra gli artefici della vittoria di Lipsia che decretò il tramonto di Napoleone, e in tutte le sue campagne non solo ebbe voce in capitolo nei consigli di guerra, ma riuscì anche a farsi una solida reputazione fra i sovrani alleati, come lo zar Alessandro I, che era un suo fan accanito. La sua figura si appannò tra il 1815 e il 1829, nell’intermezzo di pace che seguì il Congresso di Vienna, quando pestò molti piedi fra le alte gerarchie per la sua smania di riforme in campo militare. Il vento cambiò nel 1831, con i moti scoppiati in Italia centrale seguiti all’arresto di Ciro Menotti. Radetzky fu assegnato come luogotenente e capo del quartier generale del feldmaresciallo Johann Maria Philipp Frimont, comandante dell’esercito austriaco nel Lombardo-Veneto, al quale subentrò nel 1834. Due anni dopo, all’età di settant’anni venne finalmente promosso feldmaresciallo. Le cose filarono abbastanza lisce fino al 1847, quando i fermenti di piazza lo convinsero a proclamare lo stadio d’assedio a Milano. Da quel momento il nome di Radetszky resterà legato con un nastro di sangue a tutti i più importanti capitoli del Risorgimento italiano, dalle cinque giornate di Milano ai martiri di Belfiore fino alla caduta di Venezia del 1849, aumentando via via la sua fama di spietato forcaiolo. Radetzky morirà il 5 gennaio del 1858, nella sua casa ai giardini pubblici di Milano, per i postumi di una caduta. La salma venne trasportata a Venezia, imbarcata e spedita a Trieste, da dove ripartì in treno alla volta di Vienna. L’anno successivo l’Impero perse la Lombardia e dovette cedere alla spedizione dei Mille. Di fatto, con la morte di Radetzky finiva anche l’egemonia austriaca in Italia.
Oggi la sua figura continua a dividere gli storici. Fu il grande militare e uomo politico che contribuì a mantenere saldo un impero che stava già scricchiolando, o fu un soldato capace solo di usare la forza, persino a suo danno? Negli anni storici e studiosi come Giorgio Ferrari, Francesco Perfetti, Alessandro Luzio e persino Indro Montanelli hanno provato a togliere Radetzky dalla lista dei cattivi, riconoscendogli un certo spessore etico, indubbia lealtà e solide capacità politiche. E in Friuli, dove viveva la sua famiglia dopo il matrimonio con Francesca Romana von Strassoldo-Gräfenberg, dalla quale ebbe cinque maschi e tre femmine (nonostante, tramandano le cronache storiche, conservasse come fedele amante la lavandaia milanese Giuditta Meregalli), rimane una memoria molto affettuosa del feldmaresciallo.
«Figuriamoci - dice Marzio Strassoldo, già Presidente della Provincia e Rettore dell'Università di Udine, discendente di Radetzky - mi ricordo che quando andavo a scuola e studiavo il Risorgimento me ne parlavano come fosse un orco; poi andavo a casa e ne sentivo parlare come di un grand’uomo, sempre affettuoso e a modo, che veniva spesso al castello a fare visita alla famiglia». «Qui nell’ex Friuli austriaco - continua Strassoldo - Radetzky ha lasciato un buon ricordo, come in Austria, dov’è considerato un eroe che ha dimostrato equilibrio politico e amministrativo, almeno dei canoni dell’efficienza austriaca di allora, un uomo che ha salvato l’impero in un momento in cui stava cedendo sotto la guida di un imperatore ancora giovane e inesperto come Francesco Giuseppe; nella nostra famiglia è ancora oggi una figura molto presente, io e mia sorella abbiamo il suo ritratto in casa».
Ma altri storici la pensano diversamente. «Non credo sia cambiato nulla nell’interpretazione della figura e dell’opera di Radetzky - dice lo storico Giordano Bruno Guerri –: per noi italiani resta un nemico, per gli austriaci un valoroso militare che ha fatto il suo dovere». «Personalmente - contiua Bruno Guerri - direi che è stato una media figura che non ha brillato in guerra e nemmeno come politico, non essendo capace di superare i limiti imposti a ogni militare al potere; era un uomo legato alla mentalità e alla cultura dei suoi tempi, senza alcuna duttilità e capacità di adattamento agli eventi, tanto da esacerbare gli animi a danno della sua stessa parte; lo metto nel limbo degli eroi che non ce l’hanno fatta».
«È stato un grande protagonista dell'Ottocento - interviene lo storico Andrea Zannini -, praticamente ignorato dalla storiografia italiana per la sua fama, meritata, di nemico del Risorgimento e di spietato repressore». «Fu un grande generale - continua Zannini -, che contribuì più di quanto si legge alla sconfitta di Napoleone, e meno di quanto gli attribuiscano i suoi biografi alla sopravvivenza dell'Impero asburgico contro le rivoluzioni di metà secolo. Un uomo di antico regime, del Settecento (aveva tre anni più di Napoleone!) che non riuscì mai a capire il nuovo protagonista del XIX secolo, la Nazione; rimase chiuso nella sua idea di società d'antico regime, nel suo sogno imperiale che sarebbe sopravvissuto fino al 1918 grazie ad un altro vegliardo, Francesco Giuseppe».
«Era un militare di professione - concorda lo storico Roberto Spazzali - e come tale si è comportato anche quando ha dovuto affrontare i rapporti con la società». «Come governatore del Lombardo Veneto - aggiunge Spazzali -, nel 1831 stroncò i moti liberali ma non comprese la crisi di consenso austriaco in Lombardia, anzi ne sarà responsabile dopo il fallimento delle insurrezioni patriottiche del 1848-1849 di Milano e Venezia». «Ed è qui - conclude lo storico triestino - che affiora l'animo prettamente militare, che teorizzò la repressione del ceto borghese ostile utilizzando la massa contadina, come avvenuto in Galizia e in parzialmente in Boemia; in Lombardia non sarà applicata, ma quei nove anni di governatore militare incapace leggere la società milanese, saranno decisivi per la svolta».
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