Jenny l’ostetrica tra le miserie dei Docklands

Un grande omaggio alla forza inarrestabile della vita, dell’amore e della solidarietà, e anche all’importanza di un sistema sanitario nazionale all’avanguardia: questo è il contenuto di “L’amore e la vita – Call the midwife”, fiction in 6 puntate (la prima stagione) che Rete 4 trasmetterà in esclusiva per l’Italia da oggi in prima serata. Questa programmazione di Rete4 è già un piccolo successo dato che finora gli ascolti non hanno premiato l’altra scelta di qualità fatta dal canale, il capolavoro inglese “Downton Abbey”.
Ebbene “Call the midwife” (letteralmente “Chiamate la levatrice”), alla sua messa in onda sulla BBC nel 2011, ha segnato il miglior debutto del canale degli ultimi dieci anni, arrivando a superare come ascolti, con la sua terza stagione (mentre ora si lavora a una quarta), anche le vicende degli aristocratici Crawley. Resta da vedere se il pubblico di Rete 4 – sopravvissuto alle soap opera e repliche della “Signora in giallo” – saprà accogliere la storia di Jenny, incantevole levatrice alle prime armi che, nel 1957, viene mandata a lavorare in un poverissimo quartiere di Londra. Le vicende di Jenny sono ispirate a una trilogia molto popolare in Inghilterra scritta da Jennifer Worth, infermiera, musicista e scrittrice scomparsa nel 2011. Worth ha pubblicato “Call the midwife” (2002), “Shadows of the Workhouse” (2005) e “Farewell of the East End” (2009); il primo di questi volumi, “Chiamate la levatrice”, è stato edito in questi mesi da Sellerio.
Worth alla fine degli anni ’90 si trovò a riflettere su un dettaglio non irrilevante: non c’erano libri con ostetriche protagoniste, nonostante il loro importantissimo lavoro. Fiorivano da sempre le descrizioni di dottori e infermiere ma delle levatrici non c’era mai traccia nella letteratura europea. Anche nel mondo del cinema, è utile ricordare, sono molto più diffusi i dolenti o ambigui ritratti di coloro che invece, quando l’aborto era ancora illegale, praticavano interruzioni di gravidanza in condizioni di grave pericolo: si va da Chabrol con “Un affare di donne” a Mungiu con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, da “Occupazioni occasionali di una schiava” di Kluge al molto celebrato “Il segreto di Vera Drake” di Mike Leigh, cui proprio Jennifer Worth nel 2005 dedicò un deciso articolo sul “Guardian”, sottolineando la falsità di quanto mostrato circa l’uso (mortale per le donne incinta ma dal film non sembrava) dell’acqua saponata per abortire.
E sono notevoli le memorie di Jennifer Worth che – come si legge all’inizio del primo libro e si recita nel primo episodio della serie – avrebbe potuto fare qualunque altra cosa. Poteva essere una modella o una hostess ma lei, scioccamente, scelse di essere un’infermiera specializzata in ostetricia. Jenny, come ci è presentata nella fiction interpretata da Jessica Raine (mentre la sua voce narrante “matura”, nell’originale, è di Vanessa Redgrave), arriva fin troppo carina e “socialmente” impreparata nell’East End di Londra, una zona molto povera e sovraffollata che si affaccia sui Docklands (la zona portuale), dove gli uomini lavorano molte ore al giorno e le donne si occupano di famiglie infinite (si arrivò a una media di 80-100 parti al mese nella zona).
Nel 1957 Jenny iniziò a vivere presso Nonnatus House, un convento di suore anglicane (in realtà le Sisters of St John the Divine) che ospitava anche infermiere laiche dedite, grazie al sistema sanitario inglese, alla cura delle tante partorienti. Nel giro di pochi anni sarebbe arrivata la pillola contraccettiva, lo sgombero dei quartieri popolosi e malfamati e la crisi dei Docklands.
Gli episodi di “L’amore e la vita – Call the midwife” sfoggiano lieto fine e gioia di vivere che sgorga ostinatamente dai protagonisti delle storie e giocano sulla lacrima facile (e non) dei telespettatori. Ma per fortuna c’è anche l’ironia che toglie il pericolo dell’eccessiva edulcorazione, un gusto molto inglese nella creazione di personaggi autorevoli ma molto umani, anche buffi: tra suore anziane che sembrano uscire amabilmente di senno, e giovani e goffe infermiere che devono imparare ad andare in bici.
Attorno a loro, donne al venticinquesimo figlio, minorenni che diventano prostitute per amore e molti bisognosi da accudire. Le levatrici sono al loro fianco, ben preparate e poco schizzinose (se lo sono smetteranno in fretta di esserlo) perché nell’East End si conviveva con troppe persone, poca igiene e molti insetti.
Nonostante la relativa crudezza di alcune scene (si vede ben di peggio sul piccolo schermo) la fiction è consigliabile a tutta la famiglia: da chi negli anni ’50 c’era e ricorda altre situazioni difficili nel nostro paese ai ragazzini che possono godere del ben confezionato quadro storico.
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