Irène Jacob: «Canto il jazz e amo il cinema italiano»

Intervista all’attrice “ponte fra Est e Ovest” ospite della rassegna Trieste Film Festival
Foto BRUNI 25.01.16 Irene Jacob
Foto BRUNI 25.01.16 Irene Jacob

TRIESTE Sobria ma chic come solo alcune dive francesi sanno essere, Irène Jacob sparge con la sua presenza un carisma quasi palpabile. È lo stesso che traspare dallo schermo nei film di Krzysztof Kieslowski che, appena venticinquenne, l’hanno resa un’icona del cinema d’autore negli anni ’90. Il pubblico del Trieste Film Festival l’ha accolta con calore l’altra sera quando ha presentato in Sala Tripcovich “Tre colori: Film rosso” nell’ambito dell’omaggio al maestro polacco, grazie al quale, ma per “La doppia vita di Veronica”, ha vinto anche la Palma d’Oro come miglior attrice al Festival di Cannes.

Trieste Film Festival, il saluto di Irène Jacob

Alla stampa invece ieri ha raccontato anche la sua carriera lunga e variegata, che ha toccato Hollywood, ma solo per brevi incursioni, e l’Italia, in “Al di là delle nuvole” di Michelangelo Antonioni, di recente in “Amore carne” di Pippo Delbono e “Nessuna qualità agli eroi” di Paolo Franchi. I suoi incroci col nostro paese non sono un caso: Irène parla bene italiano perché l’ha studiato a Ginevra, dov’è cresciuta, e ha anche vissuto un mese a Firenze. Oggi, alla soglia dei cinquant’anni (li compirà a luglio) ha ancora voglia di sperimentare: ha un progetto musicale col fratello chitarrista («Sta per uscire il nostro prossimo album “Naïve jazz”», racconta l’attrice. «Lì canto, ma è un progetto molto personale») e nei prossimi giorni comincerà le riprese di una serie tv prodotta da Bbc e Hbo, ambientata nella Parigi del 1948, «in una casa di haute couture circondata da una società devastata dalla fame e dalla miseria».

Lei è rimasta un simbolo del cinema di Kieslowski: questa impronta quanto ha influenzato la sua carriera successiva?

«Quando ho cominciato a lavorare nel teatro - risponde Irène Jacob - non avrei mai immaginato di incontrare un regista come Kieslowski che mi avrebbe offerto tante possibilità, quel modo di cercare il mistero delle cose nel quotidiano, una dimensione universale anche nei dettagli più banali. Spesso durante i suoi film mi domandava di non sorridere, c’era una tensione costante: in “Film rosso”, per esempio, il mio personaggio era più maturo di quello che ero io all’epoca. Posso dire però che è grazie a quel film che Antonioni mi ha proposto di fare “Al di là delle nuvole” e che poi ho lavorato con tanti registi internazionali».

Arriva Irène Jacob e riceve il Premio Eastern Star VIDEO
Irène Jacob premiata ieri sera al Trieste Film Festival (foto Parenzan)

Antonioni e Kieslowski, autori dall’approccio molto personale…

«Oggi l’industria del cinema cerca di fare sempre quello che può piacere a un pubblico più vasto possibile, ma così si finisce col non soddisfare nessuno. Kieslowski invece diceva che il lavoro cinematografico doveva essere estremamente personale per arrivare in qualsiasi parte del mondo. Lui veniva dalla Polonia, quando le frontiere erano chiuse, eppure i suoi film superano qualsiasi tipo di confine geografico e temporale».

Ricorda il primo incontro con Kieslowski?

«È stato in uno studio di posa alla periferia di Parigi, dove abbiamo improvvisato alcune scene e fatto le prove di “La doppia vita di Veronica”. Mi chiedevo se mi avrebbe scelto, ma almeno si era preso del tempo per incontrarmi. Dedicava a ogni attore al quale faceva il provino un pomeriggio intero».

In epoca di remake, se dovessero rifare “Film rosso”, quali sarebbero i temi ancora attuali del film?

«Al centro c’è l’incontro dei due protagonisti: salvando questa base e il sentimento di fratellanza che ne nasce, il lavoro potrebbe essere trasferito ovunque. Il mio personaggio, Valentina, sente un senso di rivolta contro qualcosa che non trova giusto: oggi viviamo situazioni diverse rispetto agli anni ’90 ma il tema della ribellione contro l’indifferenza è sempre valido. Ieri ascoltavo un discorso di Léon Blum che spiegava cos’era il socialismo: la capacità di ribellarsi contro chi dice che niente può essere cambiato. Non dobbiamo rassegnarci alle cose come sono. Sia il personaggio di Valentina che quello del giudice, comunque, erano in realtà aspetti della personalità di Kieslowski».

Essere ricordata sempre per i film di Kieslowski è stato un limite?

«Sicuramente ha dato un orientamento alla mia carriera. È sorprendente che mi chiedano ancora di presentare i suoi film dopo così tanti anni, non è sempre facile. Accade anche a Jean-Pierre Léaud per i film di Truffaut: è come se facessero parte del nostro dna. E il buon cinema è come la buona letteratura, deve continuare ad accompagnarci nel tempo».

Quali sono i suoi registi italiani preferiti?

«Il cinema italiano è molto forte nella cultura francese: i film di Fellini, De Sica, Pasolini, Antonioni sono proiettati a tutt’oggi nelle sale di Parigi. Dei contemporanei amo Nanni Moretti, Saverio Costanzo, Marco Bellocchio, Alba Rohrwacher».

Con chi le piacerebbe lavorare in futuro?

«Ci sono tanti registi che apprezzo: oltre agli italiani che ho citato, anche Julie Bertucelli, Arnaud Desplechin. Emmnauelle Bercot, Valerie Donzelli, Mathieu Amalric, Jaco Van Dormael, Pawel Pawlikowski».

Il festival l’ha premiata per aver “gettato un ponte tra Est e Ovest”. Cosa ne pensa dei problemi di integrazione che sta vivendo l’Europa?

«È una situazione di caos, c’è bisogno di un cambiamento. La Svizzera, dove sono cresciuta, ha chiuso le frontiere, ma questo atteggiamento di isolamento fa un po’ parte della sua storia di sempre. La Francia e l’Italia non potrebbero comportarsi allo stesso modo. Di certo tutti abbiamo bisogno imparare di più cos’è la solidarietà».

È vero che ha appena realizzato un film in Giappone?

«Sì, è l’adattamento della “Metamorfosi” di Kafka in versione androide, realizzato per un festival che si occupa del rapporto uomo-macchina. Il regista è Oriza Hirata. Abbiamo girato in Giappione, Cina e Francia».

Se dovesse scegliere uno dei suoi film fra tutti?

«Come risponde anche Michel Piccoli quando gli fanno la stessa domanda, “il prossimo film che sto per interpretare”».

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