Io che ero un pugile vado con Pasolini in Mostra a Venezia

L’attore recita nel film diretto da Abel Ferrara che verrà proiettato in concorso al Lido
Di Beatrice Fiorentino

di Beatrice Fiorentino

Viene dal ghetto Salvatore Ruocco, la stella nascente del cinema d’autore italiano che sarebbe piaciuta a Pier Paolo Pasolini. Ultimo di sei fratelli, cresce nel quartiere Miano di Napoli, tra Secondigliano e Scampia. È un ragazzo dal cuore d’oro, ma sa tirar di pugni come pochi e non ci mette molto a diventare la “tigre del ring”, arrivando fino ai campionati regionali.

Poi una squalifica, per una lite con l’arbitro che lo aveva ingiustamente penalizzato. E Ruocco finisce in un giro di incontri clandestini, dove se non sei fortunato ci puoi lasciare la pelle. Ma Salvatore nasce sotto una buona stella e nel suo percorso incontra il teatro. Un corso di recitazione con la compagnia Libera Scena Ensamble diretta da Renato Carpentieri e Lello Serao gli offre un’alternativa alla boxe.

Arrivano i primi provini e finalmente il cinema, con “Sotto la stessa luna” di Carlo Luglio, che ottiene una menzione speciale al festival di Annecy. Da quel momento la sua carriera è in costante ascesa e un red carpet succede all’altro. Venezia, Cannes, Roma, Montreal e ancora Venezia. Un po’ per fortuna, ma soprattutto per la sua grande sensibilità che lo porta a scegliere partecipazioni in molte delle migliori produzioni del cinema italiano di qualità.

Qualche titolo? “Gomorra” di Matteo Garrone, “Gorbaciof” di Stefano Incerti, “Caravaggio. L’ultimo tempo” di Mario Martone, il pluripremiato “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo. Recita la parte del capo-clan in “Là-Bas – Educazione Criminale” di Guido Lombardi, ispirato alla strage di Castelvolturno del 2008.

Presentato alla 68.a Mostra del Cinema di Venezia, il film aveva vinto il Premio Venezia Opera prima "Luigi De Laurentiis" e il Premio del pubblico "Kino" – Settimana della Critica.

A Lombardi, Ruocco resta molto legato, tanto da lavorare ancora con lui in “Take Five”, presentato all’ultimo Festival del Film di Roma e in uscita in sala, il prossimo 25 settembre. Nel 2009 un incontro gli cambia la vita: Abel Ferrara lo vuole nel suo “Napoli, Napoli, Napoli”, diventano amici e il regista lo cerca ancora per inserirlo nel cast del suo film “Pasolini”, in concorso a Venezia, con una parte scritta apposta per lui.

E infine, scongiurando definitivamente il rischio di rimanere intrappolato nel cliché del bel criminale, arriva il ruolo del protagonista in “Abel’s grandfather”, film che il regista italo-americano dedica a suo nonno, partito da Sarno alla volta della California.

Ruocco è un concentrato di curiosità. Generoso, spontaneo, estroverso. Instaura subito un dialogo fitto fitto in cui spesso è lui a fare domande. Si informa su qualsiasi argomento, dalla questione israelo-palestinese, agli ultimi libri letti. Alla televisione guarda il teatro di Eduardo e dice di non amare troppo la tecnologia che talvolta distrae dai veri valori della vita. Alla fine resta un ragazzo semplice.

Da quando si è sparsa la notizia della sua quinta partecipazione a Venezia lo cercano tutti, amici, giornalisti, fan. Potrebbe ritirarsi da qualche parte in villeggiatura ma preferisce restare a casa . assieme al suo gatto Shakespeare circondato dai libri, perché ciò che sente di voler fare ora è studiare, studiare, studiare.

«Mai letto “Una vita violenta” di Pasolini?» – chiede invertendo il ruolo intervistatore/intervistato con candida non-chalance. Ma poi si scusa, e ride: «Giusto, non devo essere io a fare le domande, io parlo sempre. Procediamo».

Allora, cos’è che sta studiando?

«Recitazione, dizione. E anche inglese. Mi è capitato di fare un provino per un film di John Irvin. Era andato molto bene ma alla fine non mi hanno preso perché il mio inglese non era abbastanza buono. La prossima volta non voglio farmi trovare impreparato».

Tornando a Pasolini. Che ruolo recita nel film di Ferrara?

«Non ne possiamo parlare fino a Venezia. Quello che posso dire è che il film si regge tutto su Willem Dafoe, è lui il personaggio centrale. Tutti gli altri abbiamo delle partecipazioni. Io faccio il ruolo di un politico, due o tre scene ma sono importanti. Abel ha creato quel personaggio apposta per me perché voleva a tutti i costi che fossi nel film, ma non potevo fare il romano per via del mio accento napoletano. Lui, comunque, ha detto che mi voleva per le mie doti di attore, non per amicizia».

Tra voi il legame è molto forte. E’ vero che lo ha anche aiutato a disintossicarsi?

«È vero. Non potevo lasciare che Abel continuasse a distruggersi, beveva 45 birre al giorno e nessuno gli diceva niente! Io sono sempre stato pulito, non ho mai fumato neppure uno spinello, ma conosco una comunità gestita da una persona di fiducia. L’ho proposta ad Abel e lui ha accettato. Andavo sempre a trovarlo per fargli coraggio. Ora son due anni che beve solo acqua minerale, è una persona nuova».

Cosa le ha insegnato Ferrara?

«Oltre che un amico è un grandissimo maestro di cinema. Quando si lavora con lui sempre bisogna rubare con gli occhi e imparare. Un’altra cosa che mi ha insegnato è di essere sempre me stesso».

Com’è stato recitare accanto a Dafoe?

«Dafoe ha fatto un lavoro incredibile e la sua somiglianza con Pasolini è impressionante. Tra l’altro non è stato doppiato, anche la sua voce è identica a quella di Pasolini».

Quindi si candida alla Coppa Volpi?

«Sempre se il film non vince il Leone d’Oro. Perché secondo me vince».

Cosa rappresenta per lei Pasolini?

«Una sua frase mi ha aiutato in un momento particolare. Dopo la squalifica, in poco tempo avevo perso tutto. Il pugilato, gli amici e anche la ragazza. La sua famiglia non voleva che perdesse tempo con uno come me, le dicevano “trovati un avvocato! Cosa potrà mai darti quello lì?”. A darmi forza erano queste parole: “Bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. Ora lo sto conoscendo meglio. Ho visto “La rabbia”, sto leggendo altre cose. Ma com’è morto veramente Pasolini?»

Secondo lei?

«La legge dice Pelosi, ma i miei calcoli dicono che sono stati i servizi segreti. Era un personaggio scomodo, si dev’essere avvicinato a qualche verità importante».

E qual è la versione di Ferrara?

«Non lo so, nessuno ha ancora visto il film per intero. Abel racconta l’ultimo giorno di Pasolini in vita, ma non gli interessa mettere in scena una teoria sul suo omicidio. Anche se dice di sapere chi è stato a ucciderlo».

Pasolini era molto legato al Friuli. C’è mai stato?

«Non ancora, ma è una cosa che voglio fare. Voglio scoprire quei luoghi. Anzi, faccio questa promessa. Verrò a presentare il film e farò di tutto per portare Abel con me, nella terra di Pasolini. Si può provare a organizzare questa cosa?».

Quali sono i suoi prossimi impegni?

«Da settembre sarò in sala con due film, “Pasolini” e “Take Five” di Guido Lombardi, un caper-movie in cui interpreto uno dei cinque protagonisti. E poi bisogna finire le riprese di “Abel’s Grandfather”. Sto anche scrivendo un libro assieme a Gabriella Simoni in cui racconto le mie esperienze nella boxe clandestina, si intitola “Il sapore del sangue”. Posso leggere una frase?»

Certo.

«Uno, due, tre, quattro… Le gocce di sangue fuoriuscivano dal naso, dall'occhio. E scivolavano giù, fino al collo; una volta lì, si mischiavano al sudore e la loro corsa diventava più rapida. Alla fine, si infrangevano sul pavimento del ring, disegnando forme astratte, simboli di morte. A volte bevevo quel sangue, quando arrivava alle labbra. Ne gustavo il sapore, ed era sempre troppo tardi quando mi accorgevo che non si trattava di sudore, ma del sapore del sangue».

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