Insieme in piazza per non essere più solo le custodi del focolare
TRIESTE Per molte donne il ’68 e il decennio immediatamente successivo rappresentarono un periodo di lotta e di conquiste, che rivoluzionarono in breve tempo la loro condizione in famiglia e nei rapporti con l’altro sesso, spezzando la catena d’ingiustizia che fino ad allora le aveva imprigionate in un destino cui era impossibile sottrarsi.
Le donne avevano ottenuto il diritto di voto, ma le costrizioni sociali pesavano ancora come macigni e fu su quel piano che si spostò la lotta: come scrisse la cronista statunitense Betty Friedan ne “La mistica della femminilità” (1963), testo fondante del femminismo americano, le donne non potevano più ignorare quella voce interiore che urlava: “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa”. I movimenti femministi rivendicarono il diritto per la donna di decidere per sé e per il proprio corpo in una società patriarcale in cui questo principio basilare veniva continuamente calpestato.
Il seme lanciato nel ’68 avrebbe negli anni a seguire portato l’impegno e la lotta per l’emancipazione femminile lungo strade tutt’altro che in discesa. Ma furono quegli anni il tempo più rivoluzionario per un movimento che avrebbe inciso non solo nella società me nei singoli destini di tante donne. Ce ne parla in questa terza intervista della serie dedicata al ’68 triestino Claudia Ponti che visse il movimento femminista locale da una prospettiva particolare, quella di una donna separata negli anni in cui l’istituto del divorzio ancora non esisteva. La legge sul divorzio sarebbe arrivata, tra mille resistenze, specie della Chiesa Cattolica, nel ’70, confermata poi dalla volontà popolare con il referendum del 1974.
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