In una casa di Trieste spuntano le lettere dalla prigionia di Marcello Velia, il macchinista del “Sistiana”
TRIESTE Le lettere sono qui, catalogate e riposte in cartelline trasparenti, ordinate per data. Saranno almeno un centinaio. Appena ritrovate nella soffitta di un’abitazione privata, sono ora in attesa di essere ordinate e catalogate. Quante ne mancheranno, mai recapitate, perse o distrutte in quel grande buco nero della guerra? L’intestazione è Marcello Velia N° 238, Koffiefontein – Internment Camp N° 4 South Africa. Quella davanti a me è la corrispondenza di un triestino, uno dei tanti imbarcati sulle navi del Lloyd o di altre compagnie che il 10 giugno 1940, giorno di entrata in guerra dell’Italia, si trovavano in acque territoriali nemiche.
L’autore delle lettere era il capo macchinista sulla nave da carico “Sistiana” che, quel fatale giorno, si trovava nel porto di Città del Capo. Catturato mentre eseguiva l’ordine ricevuto via radio di autoaffondarsi, venne trasferito assieme al comandante Cattarini al campo di prigionia di Koffiefontein nell’Orange F.S. Presto i due ufficiali vennero raggiunti dal resto dell’equipaggio e cominciò così la drammatica detenzione che si protrasse per quasi sei anni. Ai prigionieri, alloggiati in baracche, già ricovero degli uomini di colore utilizzati nelle miniere di diamanti della zona, si unirono dopo pochi giorni i marinai di un altro mercantile triestino: il “Timavo”.
Fra i prigionieri di quest’ultimo c’era anche Paolo Dequal, collega e vecchio compagno di studi, con cui Marcello rinsaldò l’antica amicizia. Le lettere, rigorosamente soggette a censura (passed by censor) non potevano contenere informazioni che non fossero strettamente personali, tuttavia traspaiono brandelli di quello che gli internati stavano vivendo. Se, da un lato, il prigioniero N° 238 rassicurava la famiglia sull’ottimo stato di salute ed esprimeva la speranza di un rapido risolversi della brutta avventura, fra le righe si capiva il profondo stato di sofferenza anche per l’incertezza di quanto stava accadendo in patria. Le notizie erano totalmente mancanti e la posta, che pure giungeva, era più che datata. A volte passavano anche otto mesi senza ricevere nulla e poi all’improvviso arrivavano cinque, sei, persino quindici lettere. Oltre all’angoscia per la famiglia lontana non mancavano i disagi contingenti: la polvere di silicio che tormentava i prigionieri per mesi, fino all’arrivo delle piogge: “ne abbiamo inghiottita tanta che non mi dimenticherò mai”; oppure la stagione estiva torrida e soffocante: “Si va mezzi nudi. Qualche giorno ci si spoglierebbe anche della pelle. Sono molti che il solo costume è quello da bagno”.
Anche la promiscuità della camerata a lungo andare diventa insopportabile e porta il prigioniero N° 238 a isolarsi sempre più e a ripiegare sulla lettura dei libri che gli giungevano di tanto in tanto da casa e nello studio dell’inglese e del francese. Ma anche questa distrazione col tempo diventerà pesante a causa dell’aggravarsi dei problemi di vista. La noia esasperante per le giornate sempre uguali e interminabili viene mitigata da qualche partita serale a scacchi o a carte con l’amico Dequal. Persino le cure quotidiane, come il lavare e rammendare diventano un diversivo per ingannare il tempo. Per quanto riguarda il proprio sostentamento così scriveva alla famiglia che certo, a casa, soffriva per il cibo razionato: “Alle ore 8, caffè latte, pane burro e marmellata; a mezzodì minestra, carne lessa con contorno, pane e caffè nero; alle 18, minestra, spezzatino di carne in umido con patate o verdura di stagione, pane e caffè nero. Due volte alla settimana abbiamo dei buoni spaghetti al sugo di carne in cambio della minestra. Una volta alla settimana abbiamo due uova a testa al posto della carne. I generi sono di buona qualità e le razioni abbondanti. I cibi vengono confezionati dai nostri cuochi che, a dire il vero, quelli di bordo si sono dimostrati i meglio adatti e i più capaci”. Sembrerebbe quasi una vacanza di lusso, ma di certo non era così. Soffre d’insonnia: “passo le notti senza riposo. Non so cosa pagherei per poter dormire, così le notti sono lunghe e alla mattina mi sento stanco e svogliato”.
In una lettera si lascerà sfuggire: “Se da qui si avrà la fortuna di uscire con tutte la facoltà mentali a posto sarà una gran cosa. Fino adesso ne contiamo più di qualcuno che gli ha girato i baccoli”. Ha anche ripreso a fumare e questo non giova ai suoi polmoni. Intanto sono passati gli anni e la posta è sempre più irregolare. Al campo non sanno niente delle sorti della guerra, dei bombardamenti sulle città, delle notti trascorse nei rifugi. Dopo l’8 settembre forse qualcosa sarà trapelato perché in una lettera troviamo: “Sono fra quelli che dovrebbero rimpatriare già da tanto tempo e, sfortunatamente, si è saputo che è stato sospeso. Così, adesso, non ho un’idea di quando potrebbe essere questo tanto desiderato rimpatrio”. Lo scoraggiamento è palpabile, ma finalmente, dopo cinque anni dalla cattura, la guerra finisce e Marcello scriverà: “Ora che la guerra in Europa è finita aspetto ansiosamente di uscire da qui per essere rimpatriato”. L’attesa invece sarà ancora lunga e snervante; passano i mesi senza ricevere notizie da casa e senza sapere quando verranno rilasciati. Rassegnato, il 18 novembre 1945 scriverà al figlio: “desidero infinitamente di rivederti, ma per quest’anno non è più da illudersi”. Resta inspiegabile questo prolungarsi della prigionia.
Sono passati quasi sei anni dalla loro cattura quando, finalmente, il 14 gennaio 1946 il prigioniero n° 238 potrà annunciare: “Con grande emozione ti comunico che oggi abbiamo avuto la notizia, a lungo agognata, di prepararci”. Anche il ritorno dei prigionieri non fu facile: la vecchia carretta su cui furono imbarcati per raggiungere Napoli impiegò un mese. A bordo, le condizioni igieniche ed il trattamento erano ben peggiori che al campo. Giunsero a Napoli il 18 febbraio 1946 e l’ex prigioniero fu tradotto a Brindisi e poi, sopra un carro merci usato per il trasporto di cemento, poté finalmente raggiungere Trieste. Scese alla Stazione Centrale, irriconoscibile, con un vecchio cappotto impolverato, e in uno stato di salute ben diverso da quello che si ostinava a dichiarare nelle sue lettere. Ritornò in una città ed in un’Italia diverse da quelle che aveva lasciato sei anni prima, incredulo e disorientato di fronte alla nuova realtà. Ma non erano tempi per lasciarsi andare. La vita doveva continuare: curati i vari problemi di salute e rimessosi un po’ in sesto, già nell’ottobre 1947 si imbarcò sul liberty “Duino” del Lloyd e riprese la via del mare, verso l’Oceano Indiano. Probabilmente nel corso delle sue nuove traversate l’ex prigioniero n° 238 non ebbe più occasione di incrociare il Sud Africa. E forse fu un bene, per un pezzo di vita rubato che nessuno gli avrebbe potuto restituire. —
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