In quel nuovo ritratto di signora c’è il riscatto di Isabel Osmond

Isabel Archer, sposata Osmond, è tornata. Avevamo lasciato la protagonista del capolavoro di Henry James “Ritratto di signora” (1881) di ritorno a Roma dal marito Gilbert, uomo di scarsi sentimenti e buon egoismo che l’ha sposata solo per i soldi, richiamata da un senso del dovere che la sottrae al fascino di Caspar Goodwood, decisa a portare l’eroico fardello di moglie devota a dispetto di tutto. La ritroviamo ora in viaggio prima a Gardencourt e poi a Londra, dove è venuta a ritirare la ricca eredità che le ha lasciato il cugino Ralph Touchett, decisa stavolta a riprendersi la sua libertà. Ed è con una valigia piena di denaro che Isabel si avvia al riscatto di un’esistenza, nonostante «l’inflessibile senso del dovere», quel «tormento spirituale ereditato dai suoi progenitori puritani».
John Banville è uno scrittore che con la parola fa ciò che vuole. Si tratti dei gialli dell’anatomopatologo Quirke, o di romanzi di alta levatura esistenziale come “Il mare”, o di funambolica mitopoietica come in “Teoria degli infiniti”, Banville ha la capacità di esplorare e giocare con le molteplici forme del narrare come un funambolo. Grande protagonista in questi giorni a Pordenonelegge, presenza assidua nella nostra regione (è nella giuria del Premio Nonino), lo scrittore irlandese ha un’attitudine quasi malvagia, al limite del cinismo, nel piegare la prosa ai suoi capricci e ai suoi voleri. Nessuno meglio di lui poteva dunque prendersi la briga, o avere il coraggio, di affrontare un romanzo come “Ritratto di signora” e di riscriverlo secondo il proprio estro, mantenendo al contempo uno spessore espressivo e uno stile mimetico che hanno poco da invidiare al maestro. “Isabel” (Guanda, pagg. 388, Euro 19,00, traduzione di Irene Abigail Piccinini), è dunque molto più di un gioco metaletterario, ma è un romanzo compiuto in sé, dalle trappole scoperte, come scoperto è il gioco del suo autore. Del resto è lo stesso Henry James, citato in esergo al libro, a mettere Banville sulla strada giusta: “Profonda nell’anima - più profonda di ogni tentazione di rinuncia - vi era la sensazione che la vita sarebbe stata affar suo per molto tempo ancora”. Come sottrarsi all’invito? Ecco allora Banville prendere per mano Isabel, e accompagnarla in un viaggio - in una narrazione - dove si ribalta l’assunto di base: se la vita è affar suo a dispetto di un matrimonio subìto e trascinato solo per dovere, è giusto incamminarsi seguendo l’unico indirizzo possibile: la libertà. «E la libertà era ed era sempre stata, per Isabel, una cosa importante, forse la più importante in assoluto, perché come poteva la vita essere tollerabile trovandosi completamente bloccati e impastoiati?». Isabel sente l’impellenza di «affermare qualcosa di sé, qualcosa di esclusivo, facendone valere l’autonomia, per circoscritta che fosse». Il piano? Usare lo stesso strumento che ha causato la sua infelicità: i soldi. «Ho intenzione di usare la mia fortuna, i miei soldi, per comprarmi la libertà», confessa Isabel alla signorina Janeway, uno dei personaggi che Banville si è preso la libertà di inventare per rendere più fitta la trama della vendetta e del riscatto. Come nel film del 1996 diretto da Jane Campion e interpretato da un’indimenticabile Nicole Kidman, all’ambiguità del finale Banville aggiunge un’ulteriore suggestione: Isabel ormai libera e ricca osserva con distacco il suo destino e si interroga sul futuro: «Dev’esserci qualcosa al cui servizio io possa dedicare la mia libertà e la mia fortuna».
Le storie, come sa bene Banville, non finiscono mai. La parola “fine” al termine di un romanzo, di un film, di una qualsiasi narrazione, non è che una convenzione. E rompere le convenzioni è il lavoro primo, il primo impegno, di ogni scrittore. Come fa Isabel Osmond. —
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