In Cittavecchia il mondo esotico delle case chiuse

Un volume sulla storia della prostituzione a Trieste di Dino Cafagna oggi in edicola con “Il Piccolo”
La maggior parte erano concentrate nella zona di Cittavecchia e Cavana, ed esibivano nomi esotici come la casa “internazionale” “La Francese” - dove, secondo la pubblicità, si parlavano quattro lingue -, o il Metro Cubo, o la più lussuosa Villa Orientale. Erano frequentate da maschi di ogni categoria sociale, proletari e ricchi borghesi, artisti e intellettuali, militari e commercianti, le tariffe variavano da tre lire per la semplice, cinque la doppia e due lire i militari, e al loro interno si potevano trovare prodotti innovativi, come i preservativi Hatu, acronimo di Habemus Tutorem, espressamente frabbricati per la Milizia Fascista. E loro, le “lavoratrici”, spesso avevano nomi rimasti impressi almeno in una parte della memoria collettiva: la Muta, la Bersagliera, la Garibaldina e così avanti.


Succedeva quando Trieste tollerava. Le prime notizie certe sulla prostituzione pubblicamente amministrata a Trieste risalgono al 1337, dove negli Statuti della città si legge di un bordello aperto in un edificio gestito dal Comune dietro il Palazzo municipale, a ridosso delle mura cittadine che davano verso il mare, nella zona del Mandracchio. Ma i rapporti tra prostituzione e cosa pubblica sono molto più antichi, e Trieste non fa eccezione. È una storia complessa, articolata, illuminante sotto molti aspetti per cogliere il divenire della società quella della prostituzione, una storia che da dai tempi più remoti coinvolge tutta serie di aspetti della vita quotidiana del tempo che vanno dalla morale alle religione, dalla sanità all’ordine pubblico. A Trieste, città di mare dai mille volti e crocevia della storia, la prostituzione ebbe il massimo sviluppo a cavallo fra Ottocento e Novecento sulla scia della crescita economica della città (nei primi decenni del secolo scorso si contavano quaranticinque case di tolleranza con trecento lavoratrici), e prosperò anche nel secondo dopoguerra fino all’entrata in vigore della legge Merlin nel 1958 che decretò la fine delle case chiuse e del controllo diretto della prostituzione da parte dello Stato.


Ora un libro firmato da
Dino Cafagna
apre una finestra sulla storia del meretricio cittadino:
«Le case di tolleranza a Trieste» (Luglio Editore, pagg. 243)
da oggi nelle edicole con
“Il Piccolo”
al costo di
13,70 euro più il prezzo del quotidiano
. Nel suo libro Cafagna segue i cambiamenti del fenomeno dal periodo medioevale fino al secondo dopoguerra soffermandosi su alcune tappe significative (l’occupazione napoleonica della città, il passaggio dall’Austria all’Italia, l’occupazione nazista e gli anni del Governo militare alleato) ma soprattutto insistendo sull’organizzazione e la vita quotidiana nei bordelli: dai tariffari ai controlli sanitari, dalla provenienza delle prostitute alla “tipologia” dei clienti, tenendo come filo conduttore i segni lasciati da questa realtà nell’immaginario collettivo cittadino. Dall’elenco delle case chiuse nei primi del Novecento tra le vie dei Capitelli, del Sale, delle Beccherie, alle figure di alcune “famose” prostitute con i loro soprannomi il libro di Cafagna restituisce un vissuto ormai consegnato alla storia sociale di Trieste, almeno nei suoi aspetti più folklorici e popolari.


In realtà le case di tolleranza sono state, nel bene e nel male, isole sociali, zone franche dove l’amore mercenario alimentava ben più di un generico immaginario. Frequentate da ogni sorta di categoria sociale maschile le case chiuse hanno lasciato un segno sottile ma profondo nella cultura di quei tempi - specie dei tempi moderni - la cui portata forse non è stata ancora scandagliata con la dovuta attenzione se non nei suoi aspetti narrativi o popolari. Rimane appunto un cumulo di memorie per lo più slegate e frammentate, curiosità ridanciane, sfumature legate a usi e costumi, il tutto amalgamato dal controllo sociale. Lo Stato di turno che si faceva carico di gestire una realtà sfuggente, contraddittoria, troppo spesso sorvolando allegramente sugli aspetti più dolorosi e alla fine più rivelatori dei limiti e delle antinomie della società stessa: le donne protagoniste di questa “tolleranza”, il loro più o meno malcelato sfruttamento, il prezzo pagato a una disparità quella sì non più tollerabile.


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