Il volto della città si svela fra le tombe
«Ho pigliato una carrozzella e, fantasticando, mi sono avviato ai cimiteri». Così inizia il racconto della visita a Sant’Anna dell’architetto e scrittore Camillo Boito, avvenuta nel 1866. Potrebbe apparire bizzarro scegliere un camposanto come meta di una passeggiata. Non a Trieste, dove il complesso monumentale ricompone le diverse anime della città raccontandone attraverso l’arte l’irresistibile ascesa ottocentesca.
Cattolici, ebrei, protestanti, greci-orientali, serbo-ortodossi, ottomani qui celebrano insieme il ricordo, gli uni a fianco gli altri, in un rapporto di continguità che non è solo formale e dove l’intreccio di lingue e culture fu il lievito dell’emporio triestino e l’arte la sua celebrazione. Se ne avvidero i viaggiatori più attenti, che imboccarono la strada che dal centro portava all’erta di Sant’Anna. »Una strada brutta, per verità, anche fatta astrazione dal luogo dove conduce», commenta Marino Miliegi nel suo agile vademecum “Città dei Morti” (1866). «Rammentiamo che questo è uno dei belli cimiteri d’Europa», aggiunge, sottolineando che «parecchi viaggiatori tedeschi si sono espressi essere la nostra necropoli grandiosa e imponente». Qui sepolcri monumentali, epigrafi firmate dai grandi artisti dell’epoca, lapidi vennero dedicate a banchieri, assicuratori, armatori, mercanti, artisti e singoli cittadini (Luca Bellocchi, “Cimiteri storici di Trieste e del Litorale Istriano”. 2020). Insomma, un museo a cielo aperto dove si trovano le più prestigiose firme dell’architettura dell’epoca, fermate nella pagine di “Una passeggiata alle tombe” di Vincenzo Drago (1870).
Trieste, primi dell’800. La città stava vivendo il periodo più fiorente della sua storia. Il porto, il principale dell’impero asburgico, fu un richiamo tale che la popolazione crebbe rapidamente dai 30. 000 abitanti del 1800 ai 235. 000 abitanti del 1914. Va ricordato che il 23 agosto 1783 Giuseppe II emanò un decreto che proibiva, nei possedimenti degli Asburgo, la sepoltura all’interno delle chiese. Questo, insieme alla progressiva mancanza di spazio, al processo di despiritualizzazione del tempo – che contribuì alla nascita dell’architettura cimiteriale – e il successivo Editto di Saint Cloud di Napoleone del 12 giugno 1804 – portò l’amministrazione comunale all’individuazione di soluzioni alternative ai due vecchi cimiteri situati sul colle di San Giusto.
Prescelta, nel 1819, fu una zona molto lontana dal centro abitato, a Valmaura, sulla strada per l’Istria, di proprietà della famiglia patrizia dei Burlo consacrata per l’appunto a Sant’Anna. «A Trieste il sorgere della città dei morti andò di pari passo con l’edificazione della città dei vivi», sintetizza la storica dell’arte e conservatrice Lorenza Resciniti. Per il cimitero monumentale, però, l’edificazione fu meno piana per lo scontrarsi delle autorità sui progetti. A partire dall’ingresso, ideato dal brillante architetto Matteo Pertsch che esiste tuttora, sebbene sia diventato secondario: in mezzo al frontone è raffigurato a bassorilievo un serpente avvolto su se stesso, che si mangia la coda; fra le colonne, da entrambi i lati, stanno due fiaccole rovesciate ed incrociate, sormontate ciascuna da una nicchia contenente un sarcofago, tutti emblemi che richiamano la fine della vita mortale e l’immortalità dell’anima.
L’ingresso principale in uso è opera di Vittorio Privileggi, ornato da tre sculture di Marcello Mascherini raffiguranti due Angeli e una Resurrezione di Lazzaro. La prima sepoltura nel cimitero cattolico di S. Anna fu effettuata il 1° agosto 1825.
Passeggiando tra gli ariosi viali si incrociano i nomi di Umberto Saba, Virgilio Giotti, Giorgio Strehler. Qui Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, riposa con la moglie Livia nella tomba della cattolica famiglia Veneziani, mentre i genitori e il fratello dello scrittore si trovano nel cimitero ebraico. Del suo amico di una vita, il pittore Umberto Veruda, si ammira l’elegante costruzione a gloriette. Si potrà incorrere nella sobria tomba dell’alpinista, naturalista e scrittore Julius Kugy, o in quella dell’inventore dell’elica, Giuseppe Ressel. In pietra carsica la dimora degli Stuparich, dove risposano tra gli altri Giani, la moglie scrittrice Elody Oblath e il fratello di lui Carlo. “Colpisce” quella del pugile Tiberio Mitri, in forma di ring.
Si giunge così alla spettacolare Galleria, indirizzo della potente aristocrazia economica e politica della città ottocentesca dove si succedono più di sessanta tombe di famiglia di Prima classe sorvegliate da una moltitudine di angeli consolatori. Un’antologia dell’accademia scultorea del secondo Ottocento, secondo Roberto Curci (I cimiteri di Trieste, un aldilà multietnico). Ci sono i Tonello – tra i primi a fondare cantieri navali a Trieste – i Bignami, i Capuano, i Brucker Holzknecht, i Chiozza, i Sartorio, i Parisi e molti altri.
Famosi scultori firmano gli imponenti avelli: Antonio e Francesco Bosa, Luigi Ferrari e Giovanni Duprè ai triestini Francesco Pezzicar, Giovanni Mayer, Gianni Marin e Franco Asco, sino a giungere al viennese Rudolph von Weyr e al dalmata Ivan Rendic per citarne alcuni più un vastissimo campionario di artisti locali del XIX e del XX secolo. Lungo il muro proseguono i nomi di altre famiglie insigni, come i Cassis Faraone, i de Incontrera, gli Hermet, l’imponente Currò Psacharopulo.
Inoltrandosi nei viali si incrociano opere anche originali ed enfatiche, come la tomba Cossovich, realizzata dal maestro croato Ivan Rendić, dove un’inconsolabile figura di giovane è adagiato su un tappeto policromo fastoso; o la brillante edicola moresca per la famiglia Goich. Colpisce la figura femminile, di spalle, pudicamente ascosa nella pietra viva nella quale sembra entrare: è la tomba Radivo, commissionata dalla famiglia dell’architetto e collezionista Alessandro Hummel e realizzata a fine ’800 dallo scultore danese Rudolph Tegner. Molte sono le suggestioni che si colgono visitando il cimitero cattolico, riflesso di sensibilità diverse e composite. Successivamente il Magistrato assegnò i diversi lotti di terra di Sant’Anna alle diverse nazionalità e religioni presenti, dando compiuta rappresentazione alle anime della città.
Molto ancora sarebbe da dire. Ma al visitatore si lascia aperta la porta della suggestione personale, ricordando Marino Miliegi ne “La città dei morti. Saggio sui cimiteri di Trieste” (1886), nella sua pagina conclusiva e di sorprendente attualità: «Qui una fatale sciagura ci costringe ad arrestare i nostri passi. Questa sciagura, che ha colpito e desolato, più colla presenza che non in realtà col seminarvi la morte, una intiera città, si chiama il còlera. La comparsa del morbo ha indotto l’autorità municipale a far chiudere l’accesso alla necropoli a tutti; tanto che fino alla totale cessazione della moria, non possano entrare in cimitero se non che i morti e i becchini. Querulus (l’autore, ndr), essendo ancor vivo e non facendo professione di sepellire il prossimo, ha dovuto scrivere a questo punto del suo lavoro la parola. . . fine». —
(6-Continua)
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