“Il vecchio lottatore” cerca in canoa sull’Isonzo il limite che tiene separate la vita dalla fine

Nei racconti di Antonio Franchini pubblicati da NN storie di arti marziali, scrittori apocalittici, memorie di antiche battaglie
Man paddling a canoe
Man paddling a canoe



Di pochi scrittori possiamo dire che aprendo una pagina qualsiasi dei loro libri ne riconosceremmo con sicurezza la voce come accade con Antonio Franchini. Franchini è noto per essere uno degli editor più importanti per la narrativa italiana degli ultimi decenni, un editor vecchio stile di quelli che i libri li leggono e sanno leggere nei fantasmi degli autori, un editor che nella sua biografia scrive semplicemente “lavora nell’editoria” con quel misto di understatement, garbo e aristocratica sprezzatura che è un segno del suo stile. Franchini scrive pochissimo, non parla mai dei suoi libri, eppure dalla cura e dalla sicurezza delle pagine è evidente quanto la questione della scrittura sia per lui decisiva, tormentosa. Da diversi anni lo si sapeva al lavoro su dei racconti “postemingueiani”, come dice il sottotitolo, del nuovo libro “Il vecchio lottatore” (pp. 253, NN editore, 17 euro) arrivato da poco in libreria.

Sono racconti dolenti e epici, di un’epica sempre disattesa, dove l’eroismo non sta mai in chi racconta ma piuttosto nei personaggi laterali, incontri casuali o ricercati del narratore o di Francesco Esente, l’alter ego dell’autore che torna dai suoi libri giovanili. Sono canoisti che hanno mancato per una beffa la vittoria, uomini il cui destino è essere eccitati da sfide estreme e atterrati dalle inezie, arrampicatori leggendari che finiscono per perdersi in se stessi, uomini dediti a pratiche estinte come lo iaitō, l’arte giapponese di estrazione della spada, vecchi lottatori più per volontà che per talento. “Molte cose si possono fare per volontà, anche quelle per le quali ci vorrebbe talento” scrive Franchini, e sta parlando di lotta, ma anche di scrittura, lui che talento ne ha sempre avuto ma ha scritto pochissimo, faticosamente, combattendo una resistenza del carattere o della vita.

Così attraversiamo questi racconti e restiamo attaccati ai personaggi. A Gualtiero Zanon, il friulano innamorato del sud che sa nuotare per ore nell’acqua ghiacciata del Rionero a pescare trote fario. A Sergione Altieri, lo scrittore di romanzi apocalittici, abitato da fantasmi paurosi e da venti di guerra, l’uomo che chiamava se stesso “the Wolf”, il Lupo, e aveva attraversato la vita con discrezione, quasi chiedendo permesso ogni volta che si univa agli amici per cucinare una “pasta alla Sergio” e poi se andava dopo qualche ora, per non dare disturbo. Rimaniamo attaccati a quel bambino che se ne va con il pallone stretto al petto perché una qualche controversia con il gruppo l’ha fatto sentire umiliato, escluso.

Tutti questi racconti hanno inizi nel bel mezzo delle cose e sembrano continuare discorsi iniziati da qualche parte fuori dalla scena. Evocano il celebre incipit “Solo i giovani hanno di questi momenti” di conradiana memoria. Perché quel che Franchini racconta spesso, ma in modo peculiare, è anche una linea d’ombra. La sua scrittura è costantemente animata da una malinconia sempre in anticipo sulla vita, che però nulla toglie alla vitalità, ma anzi, la esalta.

E a esaltare la vita è quell’ossessivo e ambiguo tema che batte sul fondo di quasi tutti i suoi libri: la presenza della fine, la morte che può cogliere ignari in un giorno d’estate inoltrata mentre le foglie di magnolia spiccano contro l’azzurro immobile del cielo. La bella morte, sempre fatidica, dei toreri nelle corride, nel racconto “A un aficionado”.

I cimiteri e i musei della guerra a Caporetto, il fronte degli ammutinamenti e delle decimazioni di massa, il luogo dove si ha sempre la sensazione che qualcuno ti tenga sotto tiro. Perché, ci dicono questi racconti, non possiamo mai essere sicuri di quale sia il nostro rapporto con la fine. Così uno dei passi più belli è un’annotazione che Franchini fa scendendo in canoa l’Isonzo, evitando quel tratto dove ci sono i pericolosissimi sifoni: “Non ho mai fatto quella sezione di fiume, non per paura, ma per un altro genere di inquietudine, perché la barca va sempre nella direzione dello sguardo e non sono mai stato del tutto sicuro che, dovendo scegliere tra la via della salvezza e quella della fine, l’istinto conduca inevitabilmente a scegliere la prima”. —

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