Il Tribunale dell’Aja imbrogliò a favore del bene

TRIESTE. Tribunale dell’Aja: nel processo a un presunto criminale di guerra dei Balcani si fronteggiano una tenace pubblico ministero e il difensore dell’uomo.
C’è un ragazzo bosniaco, un testimone chiave, che pare incastrare l’accusato: ma starà dicendo la verità o qualcuno sta manipolando il processo, senza farsi scrupolo di sacrificare la vita del giovane in nome della giustizia?
Su questo intreccio avvincente poggia il bellissimo film di Iglika Triffonova “The Prosecutor, the Defender, the Father and His Son” che il Trieste Film Festival presenta questa sera (sabato) alle 18 in Sala Tripcovich.
Questa mattina, alle 11 al Caffè San Marco, ultimo incontro con gli autori e, alle 12, la lettura dei vincitori del festival, ai quali andranno i premi disegnati dal gruppo Claimax.
“The Prosecutor, the Defender, the Father and His Son”, intanto, è uno dei migliori titoli visti in questa edizione: un legal thriller degno di Hollywood, ma con una marcia in più: la sensibilità tutta europea per una guerra che, in un certo senso, ha lasciato ferite sanguinanti in tutto il continente.
«Un film la cui preparazione è durata dieci anni, girato in tre Paesi con attori di otto diverse nazionalità: una vera sfida, considerate le possibilità finanziarie del cinema bulgaro», dice la regista, che si è ispirata a una storia vera per aprire un inquietante interrogativo generale: quanti processi sono stati manipolati dal Tribunale dell’Aja, magari anche per far condannare veri colpevoli difficilmente incastrabili?
Il film ha il dono di una grande autenticità: «È il risultato di una lunga ricerca», dice l’autrice. «Ho letto molto sui criminali di guerra e ho visto i filmati del Tribunale, quindi mi sono fatta un’idea di come questa gente si comporta e parla. Una cosa mi ha davvero colpito: molti dei comandanti delle organizzazioni paramilitari prima della guerra facevano gli insegnanti».
Ma ci sono davvero stati altri casi di manipolazione di un processo al Tribunale dell’Aja? «È difficile dirlo, ma anche se il caso del giovane bosniaco diventato una parte della macchina della “giustizia suprema” fosse unico, resta una forte metafora del mondo in cui viviamo. Per me questa storia è archetipica del concetto di “sacrificio umano”: da che mondo è mondo le persone comuni sono sacrificate in nome del Bene».
Nel film, in realtà, il confine tra Bene e Male è confuso, non è facile riconoscere chi siano le vittime e chi i criminali. «Non tutti sono colpevoli, ma certo tutti sono vittime: è la crudele e duratura conseguenza di ogni guerra».
La scommessa più grande, vinta, era proprio rappresentare il dolore che la guerra in Bosnia ha provocato su tutti i versanti: «La mia preoccupazione e la responsabilità più grandi erano toccare il dolore della gente reale. Non dimenticherò mai le riprese della scena allo stadio dell’Ajax, quando il padre del ragazzo bosniaco testimone chiede alla traduttrice, anche lei bosniaca: “Tu cosa sei?”, intendendo “Sei una musulmana o una cristiana?”. Non è stata solo recitazione ma l’espressione di un dolore reale: gli attori piangevano sul serio, e tutta la troupe ha cominciato a piangere dietro la macchina da presa».
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