“Il tempo difficile” di Ugo Pierri
Ugo Pierri è sempre dentro ciò che scrive. O forse talvolta ne è fuori ma come un cecchino prende la mira, allinea il mirino su tutto ciò che pare “aggredire” il mondo. L’obiettivo può essere l’ingiustizia, l’egoismo, l’ignoranza, la corruzione o come in questo caso può essere la pandemia che nelle mani di Pierri diventa l’appropriata metafora di “Il tempo difficile” (Battello Stampatore, pag. 112, euro 12), l’ultima raccolta in versi dell’autore. Il libro avrebbe dovuto essere presentato stasera, al Knulp, ma le nuove disposizioni per contenere il Covid hanno costretto gli organizzatori a rinviare l’appuntamento.
Così il nostro pittore inediale traccia i suoi profili a rappresentare il disagio sociale in cui siamo immersi, a dire la verità di sempre. Ma la pandemia di questo “Tempo malato” (così si intitola una sezione del libro) diviene voce e pretesto per tracciare una mappa di usi, consumi e costumi, abitata da personaggi archetipi di Pierri e che nella maggior parte dei casi evocano le stesse carenze, oggi come oggi potenziate dal virus.
Va detto che il Tempo, per lo più, è sempre stato malato per Pierri, una patologia individuale e collettiva chiamata uomo, l’animale più incline all’egoismo. E all’ipocrisia. Lo scrive lui stesso, altro che Covid, il virus più letale pare essere la libertà. Quindi sfilano le diverse avidità sociali, politiche, sfilano anche le “mancanze” personali, in questo bisogna ammettere che nonostante il nostro talvolta si erga a giudice, non ha mai risparmiato neppure se stesso.
Ma questo è il Pierri rivoluzionario, ferocemente ironico, spietato quasi per noia (perché da secoli nulla cambia) e da cui nessuno è risparmiato. Esiste un altro Pierri, più inedito, quasi lirico. L’ultima silloge ce lo restituisce nelle architetture più “pacifiche”, quando il contagio diviene sfondo ideale di quadri perfettamente realistici, anche sul fronte emozionale.
Così commuove il testo “Ospizio (imago mortis)”, sostenuto da una semplicità che elenca una verità dietro l’altra. Un testo concreto e disincantato che riesce a essere visionario perché, a leggerlo, pare proprio di trovarsi dentro le stanze sconsolate che anticipano la fine. Soprattutto il poeta ci ritorna uno spettro di tutti gli stati emozionali vissuti in quell’isolamento che pare non esaurire mai la sua minaccia. Il talento satirico a Ugo Pierri non è mai mancato, per cui assistiamo ad affreschi che certamente abbiamo già osservato nella desolazione della città, nella distanza e nello sfinimento dell’ozio, nell’utopia che la nuova peste faccia piazza pulita dei padroni. O forse più realisticamente inneggia anche a una nuova resistenza, per “farla franca/anche se il contagio avanza/a passi da gigante/quanti decessi?/Tanti”. E in mezzo avanza anche la memoria, minuscoli flash di vite condivise. O ancora: “E tu come stai? Lavori o muori nella torre d’avorio?”, la cui liricità è delegata a una conversazione da telefono, chiacchiere che nel breve respiro riescono a evidenziare la vita per quel è, al di là delle emergenze virali, la vita appunto pare sempre una battaglia. E indubbiamente di un realismo visionario si connotano molti altri componimenti, a riflettere l’uomo e le sue apprensioni in un “paesaggio basico stanco”. In ogni caso non è certo un particolare fenomeno (come il Covid) a dettare valore e attualità di un testo. Il poeta, il vero poeta, è colui che riesce a tradurre qualsiasi elemento peculiare (della propria vita o della propria epoca) in collettivo, universale. E quindi bastino altri tre versi, pensati per il Corona, ma abili a tantissimi contesti che ci destina la vita, parole adatte a parecchi stati d’animo all’inizio, nel mezzo o alla fine della vita, dentro a quel virus che è la vita stessa: “non sappiamo cosa dire / sarete informati / non sappiamo cosa fare…”. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo