“Il signor diavolo”, l’horror di Pupi Avati «Vediamo se so ancora spaventare»

È atteso nelle prossime ore in regione Pupi Avati, maestro del gotico padano in arrivo per presentare al pubblico del cinema Centrale di Udine (alle 19) e di Cinemazero a Pordenone (alle 21.15) il suo ultimo film “Il signor diavolo”, accompagnato in questo breve tour locale dallo storico e critico cinematografico triestino Lorenzo Codelli.
Quello di Avati è un chiaro ritorno alle origini, a quella forma di “horror” che trova la sua ambientazione ideale nella provincia italiana e di cui il regista ottantenne ha fatto da apripista nel lontano 1976 con il leggendario film “La casa dalle finestre che ridono”, seguito da altri titoli chiave come “Le strelle nel fosso” e “Zeder”. Era dal 1996 che Avati non si affacciava più al genere, dai tempi dell’uscita in sala de “L’arcano incantatore”. «Con un certo stupore - ammette il regista bolognese, il cui nome è spesso associato alla commedia – mi sono accorto che del mio cinema, quello che resiste di più nel tempo, è l’horror. Quando incontro i ragazzi ai workshop o ai seminari che tengo in giro per l’Italia, scopro che possiedono i dvd di quei miei film e allora mi sono convinto a riprovarci. Ero curioso di vedere se sono ancora in grado di spaventare».
“Il signor diavolo” segna un ritorno anche ai volti familiari di Lino Capolicchio e di Gianni Cavina, tra gli interpreti del film, così come ai suggestivi paesaggi dell’infanzia, «le pianure del Po, acqua a destra e acqua a sinistra, luoghi immutati e fuori dal tempo che la modernità non ha ancora raggiunto».
Perché fare un film sulle origini del Male nel 2019? E che cos’è oggi il Male? «Ho usato una definizione anacronistica del Male: il diavolo - racconta Avati -. Neppure la chiesa ne parla più. Non esiste neanche il male, i sacerdoti non minacciano più l’inferno, come facevano un tempo, con una lista di peccati che ti condannavano per certo alle fiamme eterne. Oggi è tutto diverso. Il Male per me è il peccato, ho ancora quell’imprinting. Ho subito prediche minacciose che hanno prodotto in me un immaginario spaventoso. Bisogna essere paurosi per poter raccontare la paura». E forse, parola di Avati, neppure la superstizione fa più presa come un tempo: «La religione di questi tempi ha un che di burocratico, i sacerdoti sono come assistenti sociali, prestano soccorso ai poveri e ai disagiati, ma avverto il loro un deficit di spiritualità. Certo Salvini bacia il rosario, ma non significa nulla, anche io porto con me un rosario degli Scout, non voglio credere che il suo sia un gesto strumentale».
“Il signor diavolo”, ambientato nel 1952 tra Roma e Venezia in piena era Dc, è l’adattamento del romanzo di Avati pubblicato nel 2018 da Guanda. C’è stato un momento in cui si è pensato che alcune delle riprese potessero interessare la laguna di Grado, ma a causa di alcuni problemi burocratici la troupe ha dovuto optare per altre zone, «non è detto, però, che non possa accadere in futuro» rassicura Avati. L’adattamento del romanzo per il grande schermo, come d’abitudine, porta la firma di Pupi e del fratello Antonio (anche produttore), assieme al figlio Tommaso. «Abbiamo cercato di raccogliere per lo schermo la parte più sostanziosa del plot - conclude - rinunciando al lungo preambolo che riguarda la sfera privata del protagonista Furio Momentè, sia per ragioni di sintesi che di costi. Ma chi ha letto il romanzo, si troverà sorpreso nel finale. Perché abbiamo optato per un espediente narrativo che porta a una conclusione imprevedibile e perturbante». —
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