Il Rigoletto dolente di Cecconi a fianco di un’elegante Iniesta
Peccato per quella chiusura del sipario all’atto del ferimento di Gilda
TRIESTE. A distanza di sei anni ritorna al Teatro Verdi un’opera molto amata come “Rigoletto”, primo titolo della popolare trilogia verdiana, assiduamente presente nei cartelloni dei teatri italiani ed esteri fin dal trionfo del debutto avvenuto alla Fenice di Venezia l’undici marzo 1851. A Trieste è stato rappresentato ben 27 volte per un totale di 182 recite, che hanno visto succedersi i baritoni più famosi del momento, dagli storici Maurel e Stracciari ai Tagliabue, Protti e Montefusco attivi a metà del secolo scorso, fino ai più recenti Cappuccilli, Nucci, Bruson e Salsi. Protagonista assoluto di questa edizione è Devid Cecconi, per la terza volta qui nel ruolo del suo debutto e con un bagaglio di almeno duecento recite che gli hanno consentito di approfondire, in ogni aspetto e nei più minuti dettagli, il personaggio.
Il suo è un Rigoletto profondamente umano, dolente, più padre che buffone, costretto da un fisico deforme a indossare la maschera del giullare velenoso e irriverente per compiacere il duca ma soprattutto per proteggere la figlia dalle attenzioni pericolose dei cortigiani. Il baritono fiorentino convince per la pertinente e spontanea gestualità scenica quanto per il generoso apporto vocale, che si concretizza in un fraseggio mosso e intelligente, sfumato nei momenti di pateticità dolente quanto pronto a dominare con facilità e sicurezza la tessitura acuta di Rigoletto vendicatore e, da vero mattatore, non tralascia nessuna puntatura di tradizione.
Al suo fianco il soprano spagnolo Ruth Iniesta, che fa di Gilda, anche scenicamente, una giovane donna innamorata e romanticamente pronta a sacrificare la propria vita per “l’iniquo traditor”. Il timbro è bello e l’ottima tecnica le consente di risolvere i passaggi più impervi e le agilità con naturalezza ed eleganza ma anche di illuminare il personaggio attraverso una linea di canto impreziosita da un bel legato, mezze voci autentiche, morbidezza d’accento e suoni impeccabili in tutti i registri. Al Duca, sul versante vocale il tenore Antonio Poli presta una bella voce, piena e timbrata, duttilmente capace di svettare nello squillo quanto di piegarsi a smorzature e varietà d’accenti mentre sul palcoscenico, pur dotato di adeguato physique du rôle, il personaggio necessita di maggiore approfondimento.
Lo Sparafucile di Abramo Rosalen è ben caratterizzato scenicamente e si apprezza per la vigorosa pienezza del suono non meno che per l’efficacia dell’accento così come sua sorella Maddalena appare adeguatamente delineata dal corretto apporto di Anastasia Boldyreva. Buono il livello dei comprimari, dall’incisivo Marullo di Dario Giorgelè all’accorato Monterone di Rocco Cavalluzzi, dall’avida Giovanna di Kimika Yamagiwa alla versatile Rinako Hara nel duplice ruolo della Contessa di Ceprano e Paggio della Duchessa, insieme a Dario Sebastiano Pometti (Borsa), Francesco Musinu (il Conte di Ceprano) e Damiano Locatelli (un usciere di Corte). Sul piano musicale la direzione di Valentina Peleggi ha proposto una lettura essenziale, attenta soprattutto a garantire la sintonia buca-palcoscenico e buona è stata la prestazione dell’Orchestra così come quella del Coro maschile preparato da Paolo Longo.
L’allestimento firmato dal regista Eric Chevalier è nel solco della tradizione senza essere rétro, si avvale di suggestive proiezioni e colloca al centro del palcoscenico un funzionale trapezio capovolto che viene fatto ruotare secondo necessità narrativa, sottolineata anche dai bei costumi di Giada Masi. Funziona tutto tranne, alla fine, far chiudere il sipario all’atto del ferimento mortale di Gilda, una scelta che interrompe la narrazione e spezza la tensione drammatica, costringendo Rigoletto ad affacciarsi sul proscenio per una manciata di battute, come fosse Tonio chiamato a cantare il prologo dei Pagliacci. Applausi a scena aperta e il compatto consenso finale del pubblico hanno decretato il pieno successo della serata.
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