Il reggae di Luciano The Messenjah che deve il suo nome a Pavarotti

Stasera al Music in Village di Pordenone l’unica data italiana del giamaicano considerato una delle voci più importanti del genere, oltre 40 album all’attivo



«La musica è la nostra vita. È la nostra anima tradotta in note e melodie». Luciano “The Messenjah”, una delle più importanti voci del reggae fin dal 1995, quando s’impose con l’album «Where There is Life», questa sera alle 21 è al Music in Village di Pordenone per l’unica data italiana. Dj della serata è Steve Giant (Rastasnob), l’ingresso è gratuito. L’artista giamaicano nato Jepther Washington McClymont, curiosamente prende il nome d’arte da Luciano Pavarotti, per la sua ampiezza vocale amata in tutto il mondo: «In parte viene da lì, è vero – spiega – fu uno dei miei mentori, Homer Harris, ad affibbiarmelo molti anni fa, al tempo viveva in Inghilterra ed era in contatto con la comunità italiana, ovviamente mi piaceva l’idea di essere associato a una voce così potente e popolare».

Dell’Italia cos’altro apprezza?

«Mi piace la gente, può sembrare strano ma gli italiani che ho conosciuto assomigliano molto ai giamaicani per come si battono per i propri diritti. È poi c’è un “flow”, un ritmo di vita – non dico lento – ma “naturale”, come in Giamaica. E credo anche ci sia un terreno fertile per il reggae».

Qual è il messaggio delle sue canzoni?

«Pace, amore e unione (risponde con il celebre motto “Peace, Love and Unity”, ndr). Dobbiamo agire compatti come una famiglia, siamo tutti sotto lo stesso cielo. Un messaggio universale, per bianchi, neri, ricchi, poveri, siamo tutti figli di uno stesso Dio, “One Love, One God, One Destiny”: un amore, un Dio, un destino».

Nella sua carriera ha registrato almeno 40 dischi, il segreto della sua prolificità?

«Anche 60! Ho talmente tante composizioni e messaggi da condividere che non posso tenermeli dentro. I discografici vorrebbero che mi prendessi più tempo tra un lavoro e l’altro, ma se un uccellino non canta non è felice».

È stato definito “uno dei più importanti cantanti reggae in decenni e la più grande speranza di sopravvivenza del genere...”

«Non mi sorprende, è il risultato di anni di duro lavoro. Ho dedicato tutta la mia vita a questa musica che mi ha aiutato, guarito, guidato e per questo vengo rispettato».

A Pordenone cosa porta?

«Il mio solito bagaglio di buone vibrazioni, divertimento, e soprattutto ho un nuovo album da presentare».

Deve molto a Freddie McGregor (altro nome di punta del reggae, al Miv l’estate scorsa). Altri suoi ispiratori?

«Bob Marley, Peter Tosh, Dennis Brown, Burning Spear, Jacob Miller, uomini enormi da cui ho ereditato la ricchezza di questa musica. Oltre al reggae, negli anni ho ascoltato icone soul come Stevie Wonder e Ray Charles. Sentendo le canzoni di questi grandi fratelli, ho imparato ad apprezzare tanti generi e ho capito che nell’arte non ci sono barriere. Sebbene sia conosciuto come cantante reggae, ho un messaggio internazionale e non posso consegnarlo solo ai fan di un genere. Voglio arrivare a tutti».

È di fede rastafari, che stile di vita comporta?

«Per esempio sono vegetariano: il corpo è un tempio, è importante con cosa lo nutri».

Nel 2016 ha dovuto affrontare un grave lutto…

«Mio figlio Menelik di 19 anni è stato assassinato, è stata una perdita atroce. La gente da tutto il mondo mi ha mandato incoraggiamento e forza, la musica è stata un conforto». —



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