Il re leone è fin troppo realistico nel suo dramma vicino a Shakespeare



Sono già passati 25 anni dal primo passaggio de “Il re leone” sul grande schermo. Correva l’anno 1994 e la Disney affidava a Roger Allers e Rob Minkoff la regia di uno dei cartoon di maggiore successo di quel decennio, Golden Globe per il miglior film musicale e doppiamente premiato agli Oscar per la colonna sonora di Hans Zimmer e la migliore canzone ( “Can You Feel The Love Tonight”) composta a quattro mani da Elton John e Tim Rice. In termini di immaginario visivo, da allora, sembra essere passato un secolo. Non era neppure cominciata la rivoluzione 3D avviata dalla Pixar solo un anno dopo, nel’95, con la creazione di “Toy Story”, film spartiacque dell’universo animato che ha segnato definitivamente l’inizio di una nuova era (anche se la Disney, in verità, ha proseguito imperterrita ancora per diversi anni nella sua consolidata formula “old school”). Ovvio e condivisibile, quindi, che per il remake 2. 0 del film, si sia deciso di fare un passo in direzione di un linguaggio più contemporaneo, più vicino e familiare ai gusti del pubblico di oggi. Le avventure del piccolo leone Simba, nella nuova versione live-action firmata da Jon Favreau (già autore della recente rivisitazione de “Il libro della giungla”), prendono vita grazie a una avanzatissima tecnica di animazione in CGI, talmente accurata e definita, da offrire al pubblico la netta sensazione di trovarsi di fronte a immagini catturate dal vivo. Ed è fondamentalmente solo per l’aspetto visivo che le due versioni divergono. Perché nulla cambia nella trama, fedelmente trasposta parola per parola, scena per scena, con l’aggiunta di poche e quasi impercettibili variazioni sufficienti ad allungare la durata del film a quasi due ore. Musafa è ancora il re della Savana, dove regna con saggezza e armonia, nel rispetto di tutte le specie animali, consapevole che da questo dipende l’equilibrio della Natura e il perpetuarsi del Cerchio della vita. Al piccolo Simba, ancora cucciolo eppure già ansioso di dimostrare il suo coraggio, spetterà un giorno la responsabilità di guidare il branco. Ma il percorso è accidentato. Perché alle loro spalle, trama nell’ombra Scar, fratello di Musafa, disposto a tutto pur di sovvertire l’ordine delle cose. Risuonano intatti gli echi shakespeariani del primo film, che anzi si fanno ancora più sinistri quando Scar, come il re Claudio di Danimarca che si interpone al destino del principe Amleto, consumato dalla sete di potere, è al centro della scena. Una nota però stona: il corto circuito tra immagini e voci. È dai tempi di Esopo che l’uomo accetta storie di animali antropomorfi nelle favole classiche, nella letteratura e nell’arte. Ma una rappresentazione così verosimile e vicina al reale stride con il doppiaggio tanto da risultare spiazzante. Forse è più facile abbandonarsi all’idea attraverso il disegno o per mezzo di una narrazione comunque filtrata dall’immaginazione, piuttosto che assistere sconcertati allo spettacolo di animali in carne ed ossa che parlano (e cantano! ) come esseri umani annullando ogni principio di realtà. L’intento di offrire uno spettacolo più “realistico” scivola così nel paradosso.





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