Il Porto volano per Trieste da Maria Teresa ad oggi una crescita comune

Martedì l’inserto gratuito dedicato allo scalo, nona parola delle dieci scelte per celebrare i 140 anni del Piccolo
Pietro Spirito

TRIESTE È una città nella città, un luogo nato come parte integrante dello spazio urbano, ma oggi separato dal centro abitato con alte mura, recinti e valichi sorvegliati. È il Porto Vecchio, l'antico scalo marittimo cresciuto ai tempi dell'Impero, custode del Punto franco voluto già da Carlo VI, sviluppato dalla figlia Maria Teresa d’Austria, e motore di un'economia inarrestabile finché Trieste fu emporio dell'Austria-Ungheria, avviato a un lento e inarrestabile declino dalla fine della Grande guerra in poi. Settecentomila metri quadrati, una lunga teoria di magazzini di stoccaggio merci fra i più grandi d'Europa: oggi il Porto Vecchio pian piano rinasce con altre destinazioni, la cittadella dello scalo entra a far parte integrante della città. E al “Porto” è dedicato l’inserto di novembre della serie mensile ispirata ai 140 anni di vita e di cronache de “Il Piccolo”.

L’inserto numero nove, - dopo le pagine dedicate a Bora, Caffè, Lingue, Bagni, Mule, Sardoni, Carso e Confini - esce martedì insieme al quotidiano, e come sempre, oltre alla copertina disegnata stavolta da Eugenio D’Adamo, è illustrato dalle fotografie storiche messe a disposizione dalla Fototeca comunale dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste.

Apre l’inserto il racconto questa volta affidato alla prestigiosa penna di Claudio Grisancich, che nel rievocare la lunga storia dello scalo ricorda come questo fece da calamita per i tanti commercianti, affaristi e avventureri che accorsero a Trieste per trasformarla da cittadella periferica dell’impero a città emporiale. Un luogo, il porto, ricorda ancora Grisancich, in cui si parlava una lingua franca, mescolanza di dialetti e idiomi di cui si sente ancora l’eco nel dialetto di oggi.

Nella rassegna delle notizia tratte dal Piccolo dell’epoca tante curiosità: come quando, nel 1990, arrivò un carico di duemila tonnellate di kiwi, provenienti dalle coltivazioni della Nuova Zelanda. Era la prima volta in un porto italiano. O come quando, nel 1900, il giornale dava conto degli ettolitri di vino partiti via mare alla volta dei porti dell’impero. Gli aneddoti di chi nel porto ci lavora e vi è legato, come Mauro Giauz, Lilli Samer, Stefano Visintin e Walter Prepost, precedono l’intervista a Moni Ovadia, che sul Porto dice: «Deve diventare un hub di cultura».

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