Il mondo noir di Georges Simenon ogni venerdì in edicola col Piccolo

Da domani al 13 marzo 2020, in venticinque uscite settimanali, i celebri romanzi dello scrittore belga. Si comincia con “Il testamento Donadieu”



Georges Simenon nacque come tale, cioè apponendo finalmente il proprio nome sulla copertina dei libri dopo un diluvio di pseudonimi, insieme al commissario Maigret: nel 1931, con Pietro il lettone. Ma intanto scartò verso una sorta di vita parallela – almeno a suo parere – da «vero scrittore», pubblicando quasi in contemporanea La locanda d’Alsazia, primo di una lunga serie di romanzi non polizieschi: che non sarebbe riuscita certo a contrastare il commissario, destinato a diventare, come disse spesso l’autore, «un’ossessione», ma lo avrebbe affiancato, per ben 54 volte. Il computo della sua immensa bibliografia dà come risultato 418 titoli, tra romanzi, testi autobiografici e un volume di critica letteraria. In questo mare, i «romans dur» – come li volle definire - sono forse una piccola isola; rappresentano però il suo ridotto, l’isola dell’anima.

Secondo il figlio John quei gialli – Simenon era sicuro che avrebbero avuto un grande successo - rappresentarono il trampolino necessario per poter scrivere altre cose. Ce lo raccontò in una lunga conversazione, anni fa, aggiungendo che l’ultimo Maigret della serie edita da Fayard – quella che ne decretò la fortuna - nelle intenzioni dell’autore non era destinato ad avere seguito. Era il 1934, e ci fu davvero una pausa. Poi arrivò la guerra, con le conseguenti difficoltà di pubblicazione, e tornò al commissario. Ma quel che davvero gli interessava erano i romanzi-romanzi, fuori dal genere poliziesco e da un personaggio fin troppo amato dal pubblico – di cui ora La Stampa, a 30 anni dalla morte dello scrittore, propone in allegato una ricca scelta. Li vedeva come il suo unico lavoro non commerciale. «Quando mi metto al lavoro su un romanzo commerciale», spiegò negli anni Cinquanta, «ci penso esclusivamente durante le ore dedicate alla scrittura»: sempre poche e concentratissime. Era velocissimo, scriveva un giallo in pochi giorni – la media era 11 - fumando e bevendo, perdendo un chilo e mezzo di peso. Ma quando era alle prese con un roman dur, allora ci pensava anche nelle pause, viveva «come un monaco», non parlava con nessuno, non alzava il telefono. È noto l’aneddoto di una chiamata da parte di Orson Wells. La segretaria rispose che il maestro stava scrivendo un nuovo libro, e dunque non poteva rispondere. «Non importa, aspetto in linea», avrebbe replicato il regista. Non è dato sapere di quale opera si trattasse, ma è certo che Simenon aveva ben chiara in mente la differenza tra i due tipi di lavoro. I «romanzi duri», benché spesso abbiano a che fare con un cadavere, hanno una loro identità inconfondibile. Sono molto più lunghi e articolati dei gialli, e nonostante la scrittura scabra, o la secchezza fulminane dei dialoghi, hanno in più una segreta ricchezza di simboli e metafore, un’attenzione alle atmosfere e al paesaggio resi davvero come in uno schizzo, con pochi efficaci tratti di penna; un’orchestrazione complessa e una tavolozza stilistica molto ampia. Chino su di essi sognò il Nobel. E compose una sorta di epica del conflitto tra uomini e donne, tra famiglie, tra gruppi sociali, avvicinata, quando la critica se ne accorse, dopo una lunga diffidenza, a due giganti come Conrad e Balzac, peraltro i suoi maestri. Lo dimostra bene il primo titolo in edicola domani col giornale: Il testamento Donadieu (1937). Racconta la caduta di una possente famiglia di La Rochelle, clan borghese ordinatissimo e cupo. —



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