Il “Monalogo” di Molly è un sonniloquio perfetto per il triestino

L’ANALISI
Marta Herzbruch
”El dovesi molarlo quel Freeman per quei quatro soldi che el ciapa e el gaveria ndr in ufizio o in qualche posto con paga fisa o in banca dove che i lo meteria sul trono a contar tutto el giorno i bori ma no ovio lu preferisi girar per casa cussì nol te mola che programi te ga ogi...”. Chi parla? Non riconoscete la voce inconfondibile di Molly Bloom? Eccola lì sdraiata nel suo letto al primo piano di Eccles Street n. 7, nella notte tra il 16 e il 17 giugno del 1904.... Sta ripensando alla sua vita e nello specifico si sta lamentando della precaria situazione lavorativa di Poldy, suo marito, che quel pomeriggio ha cornificato col focoso Blazes Boylan, suo agente.
Sì perchè Molly è una cantante, “....Amor la vecia canzoneeeeta...” e presto si esibirà in tour per l'Irlanda... “si voleria che qualchidun me scrivesi una letera de amor” pensa e aggiunge “la sua no la iera proprio e ghe lo go dito el gavesi podù scriverme quel che ghe ndava tipo per sempre tuo Hugh Boylans nela vecia Madrid le sempie credi che amar sia sospirar stago morindo epur se el me lo scriveva per mi un poca de verità ghe iera vero o no che sia te impinisi...”.
Sì, la sensuale, schietta voce di Molly, ma in triestino! La traduzione nel dialetto autoctono del “sonniloquio” interiore di Penelope, che chiude l'Ulisse di James Joyce, si deve a Fulvio Rogantin, autore di “El Monalogo de Molly” edito da tre librerie triestine (Ubik, Drogheria 28 e Minerva, pp 64, euro 12). Così lo presenta Edoardo Camurri nella prefazione: “Fulvio Rogantin è triestino e dublinese nello stesso tempo;è il riassunto vivente di queste due indispensabili capitali e, come succede a chi incarna Trieste e Dublino con pari intensità, vive con destrezza e si dedica a imprese disperate e fortunatamente insensate”.
Vale a dire che, partito come informatico, Rogantin oggi fa la guida turistica e, secondo Camurri, “ama ed è amato da Joyce al punto da non avere neanche il bisogno di leggerlo”.
E se Rogantin afferma candidamente che da piccolo aveva difficoltà con l'italiano (non si stenta a crederlo), il suo triestino appare tanto solido da poter trasporre con sicurezza il 18° episodio dell'Ulisse nella lingua “privata” usata dai Joyce a Trieste, a Zurigo e infine a Parigi. Scrive Camurri: «questa traduzione è un cornetto acustico indirizzato dentro casa Joyce, per poter immaginare e restituire quel lessico famigliare, per ascoltare il maestro mentre sussurra qualcosa a Nora, Lucia e Giorgio; mentre gioca a leggere le sue opere nel bisbiglio dialettale della propria intimita».
Che i testi di Joyce assumano nuova e forse più autentica vita quando trasposti in triestino (forse loro vera “Ur-Sprache”), s'era già scoperto nel 1996 quando Ariella Reggio aveva recitato “Il Penelope” tradotto da Venier, o quando Laura Pelaschiar e Maurizio Zacchigna avevano proposto gli spettacoli "Quando el mulo Zois parlava in triestin" e “Per Grazia ricevuta”.
Joyce in dialetto funziona alla perfezione e Rogantin ce lo conferma con una traduzione attenta, godibilissima e molto divertente. Se un appunto si deve fare, va alla scelta d'usare indistintamente “co” sia per 'quando' (senza accento) che per 'con', scelta che affatica la lettura, come nel passo “co go visto che el se lo ga meso in scarsela vero che el diventa mato co xe parla de mutande se vedi lontan un chilometro sempre a vardar co la bava quele vergognose in bicicleta con le cotole svolazanti che ghe se vedi el bunigolo anca co mi e Milly stavimo fora con lu ala festa de beneficenza fora quela co la mussolina color crema”, dettagli che, assieme a qualche refuso, possono essere emendati in edizioni successive, perché l'impresa, nel complesso, è più che vincente, e anche il lettore può affermate con Molly Bloom: “e si go dito si voio Si.
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