Il mistero di Winckelmann diventa docufilm
“Morte di un archeologo” di Paola Bonifacio e Piero Pieri indaga il destino di Trieste a partire dall’assassinio del 1768

TRIESTE. Se Johann Joachim Winckelmann, Prefetto delle Antichità del Vaticano, archeologo e padre della moderna storia dell’arte, ucciso a Trieste l’8 giugno 1768, tornasse nella città che gli fu fatale, «vedrebbe come la Trieste di oggi è anche frutto del suo pensiero». Parola di Piero Pieri, che firma la regia della docufiction “In morte di un archeologo - Winckelmann, Trieste e il riscatto di una città”, programma di Paola Bonifacio e dello stesso Pieri che andrà domenica su Rai3 Fvg alle 10 e in replica mercoledì 14 giugno su Rai3 bis (canale 103) alle 21.20.
Un’ora di film in cui vediamo un redivivo Winckelmann (il bravissimo e perfetto Adriano Giraldi) aggirarsi per le vie di Trieste e interrogarsi sul suo destino, che lo vide vittima - forse di un complotto alla Dan Brown - nella Locanda Grande in Piazza San Pietro, ucciso a coltellate da Francesco Arcangeli. L’assassino venne subito catturato, processato e giustiziato in piazza con l’orribile supplizio della ruota. Nonostante la confessione di Arcangeli, che disse di aver ucciso per rapinare l’archeologo, le vere ragioni dell’omicidio rimangono avvolte nel mistero, e il documentario accarezza l’ipotesi già avanzata dalla stessa Paola Bonifacio (autrice del libro “Il delitto Winckelmann”), e cioè che l’archeologo rimase vittima di un complotto ordito dai Gesuiti. Winckelmann si era fermato a Trieste di ritorno da un viaggio alla Corte di Vienna, dove aveva incontrato il Consigliere aulico von Kaunitz e l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, i quali avrebbero affidato all’archeologo una lettera da consegnare al papa sul non roseo futuro dei Gesuiti nell’Impero (furono rimossi dagli incarichi pubblici e poi esiliati). Una lettera, per altro, mai ritrovata. Dunque altro che rapina, Winckelmann potrebbe essere rimasto vittima di un intrigo internazionale.
Ma il docufilm di Pieri e Bonifacio va molto al di là della truce vicenda. Anzi, spostando il focus sulla figura di Domenico Rossetti - primo esegeta di Winckelmann e fautore del suo cenotafio - gli autori raccontano di come Rossetti riuscì «non solo a lavare l’onta del delitto che gettava un’ombra su Trieste, ma anzi partendo da quello a elevare simbolicamente la città, allora in piena espansione economica, a una nuova e più profonda consapevolezza civile e culturale». Attraverso interviste e testimonianze di esperti, documenti e rare immagini, “In morte di un archeologo” insiste sul volto e sul linguaggio neoclassico di Trieste, «un vero linguaggio internazionale» che esprimeva l’essere in bilico fra mondo germanico e mondo latino: «Il mondo tedesco si affacciava su Trieste e da lì vedeva il mondo classico», spiega Piero Pieri, e la figura di Winckelmann, poi “monumentalizzata” da Rossetti, «si riverbera ancora oggi in maneira incidentale sulla città». Rossetti, racconta il film, uomo capace di “fare rete” come si direbbe oggi, scelse un evento tragico per proiettare Trieste su uno scenario europeo, legando il destino di un solo uomo a quello di una città.
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