Il libro di bordo di Rumiz dal veliero sul tetto per sfuggire al virus e a molti altri naufragi
TRIESTE Paolo Rumiz nelle pagine scritte durante i giorni della grande paura collettiva, svela al lettore le rotte più segrete dei suoi tre mesi di navigazione forzata attraverso il mare della pandemia. È un libro di bordo scritto per sfuggire al naufragio e pagina dopo pagina il lettore deve affrontare e meditare su una lunga serie di orazioni civili, pamphlet politico-filosofici, documenti di autocoscienza, cronaca ragionata di piccoli avvenimenti domestici, descrizioni di paesaggi e cieli tanto reali quanto fantastici. Nelle pagine del “Il veliero sul tetto - appunti per una clausura” edito da Feltrinelli in cui sono confluiti gli articoli scritti da Rumiz per “la Repubblica” tra marzo e maggio, compaiono anche alcuni “manifesti” adatti a fornire al lettore le coordinate necessarie a costruire un futuro, come l’autore lo sogna e ne persegue, giorno dopo giorno, la costruzione.
“Ho ripensato alla speranza contenuta in quei nitidi cieli d’aprile in cui l’uomo aveva dato tregua alla Natura. Ciminiere spente, autostrade vuote, transatlantici fermi, aerei a terra, canti ai balconi, libertà di sognare un domani diverso” scrive l’autore nelle prime pagine stampate con il titolo “Il tempo restituito”. Costituiscono la prefazione del libro di bordo e come Paolo Rumiz precisa in una nota preziosa, non sono state pensate e realizzate nel suo appartamento di via Belpoggio a Trieste - quello col veliero sul tetto - bensì a Venezia nel monastero di San Giorgio Maggiore nel maggio 2020.
“Intanto non arrivano più navi da crociera. Evviva. Pare che ne faranno dei lazzaretti naviganti, cosa che in fondo sono sempre state. Se muori a bordo il viaggio non si ferma. Ti mettono in cella frigorifera e ti sbarcano alla fine”, scrive il 13 marzo quando i vertici della Regione Friuli Veneza Giulia non avevano ancora pensato di ricoverare i nostri anziani convalescenti su vecchio traghetto da ormeggiare a una banchina del porto vecchio. Non se ne è fatto nulla, ma qualcuno lo aveva già capito.
La cronaca, o meglio le annotazione dei numerosi “punti-nave” che costituiscono la rotta del “veliero sul tetto” iniziano il 12 marzo quando - scrive Paolo Rumiz –“lo spavento arrivò di colpo, assieme al diktat. Tutti a casa. Il vento letale della Cina entrava nelle nostre vite. Nel giro di un’ora strade vuote, spettrali, come per un allarme aereo”. Poche ore dopo sarebbero entrate in scena le divise della Protezione civile e i loro megafoni installati su vetture che procedevano quasi a passo d’uomo avrebbero ammonito la popolazione della città e delle località carsiche a non uscire da casa. “Echi lugubri nel bosco. Parole come ‘È severamente proibito’ già spaventavano pernici e caprioli”.
Ancora qualche minuto e il computer dell’autore diventa una sorta di centralino su cui si infrangono non solo dall’Italia e dall’Europa decine di chiamate, tutte in arrivo. Un tale Marco scrive dall’Irpinia e ipotizza che il nostro Paese sia stato militarizzato. Da Cuba un altro amico informa l’autore del suo imminente rientro in Italia con l’ultimo volo disponibile. Dalla Sierra Leone scrive Monika – chiedendo consiglio sul da farsi- e invia in via Belpoggio una foto del tramonto africano sul mare.
Entra in scena anche la politica, sotto forma del manifesto di Marina Abramovi„. Quello che aveva per titolo “Siamo tutti sulla stessa barca” e che fu lanciato nel 2018 per pubblicizzare la Barcolana. “Allora la destra locale - scrive Rumiz- con in prima fila il presidente della Regione, ne impose il ritiro, pena il taglio dei contributi pubblici. Era scandaloso per quella gente affratellare le barche dei ‘nostri’ con quelle dei migranti. La sinistra cedette. Se non l’avesse fatto oggi potrebbe ricacciare in gola quell’ostracismo a chi sappiamo. Altra occasione persa”.
Un’altra occasione persa per la gestione della Sanità pubblica la segnala al centralino di via Belpoggio Gianfranco Sinagra, primario di cardiologia a Trieste. «Mi spiega per iscritto - sostiene Rumiz - che si impone il dovere morale di analizzare con serenità e spirito critico, ad allarme rientrato, “le falle enormi di un’organizzazione che in molte aree non ha saputo prevedere e contenere, isolare e organizzare, falle che hanno causato un contagio diffuso non governato e non governabile, in un mondo dove gli spostamenti hanno raggiunto il parossismo”».
Il racconto sulla clausura da pandemia si amplia e affronta temi a 360 gradi. Gli annegati nel Mediterraneo, morti da soli, lo tsunami del Giappone nel 2011 che si portò via 20 mila persone, la necessità che il parto sia un atto corale come “avviene in tutte le culture del mondo”; e poi Lorenza che cura i piedi piagati dei migranti e “sembra Cristo che lava quelli degli apostoli”. E poi ancora il miracolo dell’alba, i passeri, il silenzio, l’immancabile bora oscura, il destino dell’Europa, Dante Carraro, medico e prete, Oswald Spengler e il suo monumentale “Il tramonto dell’Occidente”, i calzettoni di lana grezza calzati dall’autore per sciare a passo alternato nel corridoio di casa e infine lui, il Peqod, il veliero di Achab e di Moby Dick, finito sul tetto di un condomino di Trieste. no degli ultimi capitoli degli “appunti per una clausura” ha per titolo ”Aspettando la balena bianca”. Ma quale? Quella di Hermann Melville o quella uccisa dalle indagini di tangentopoli? —
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