Il goriziano Cantelli Anibaldi, morte e rinascita nella San Patrignano di Muccioli

TRIESTE. Quella di Fabio Cantelli Anibaldi, goriziano, 58 anni, è una delle testimonianze più intense della docuserie Netflix su San Patrignano, che ha riportato alla ribalta e all’attenzione di tutti i media un capitolo rimosso, per tanti sconosciuto, della storia recente: la controversa esperienza di Vincenzo Muccioli e della nascita e crescita della comunità di recupero dei tossicodipendenti da lui fondata nel 1978 a Coriano, in provincia di Rimini.
Cantelli Anibaldi fu lo storico portavoce di Muccioli negli anni difficili dei processi sugli episodi oscuri, le violenze e le contenzioni, culminati in un omicidio. Lui stesso fu ripreso dopo una fuga e riportato a forza a San Patrignano per essere rinchiuso in un bugigattolo: giorni e giorni di assoluto isolamento che lo costrinsero a guardare brutalmente dentro se stesso e, in qualche modo, prima a sopravvivere poi a salvarsi.
Questa esperienza la racconta in una lunga intervista al Piccololibri, l’inserto dedicato alle storie e ai personaggi di Trieste e del territorio che esce ogni sabato, insieme al quotidiano, all’interno dello storico Tuttolibri della Stampa. Cantelli Anibaldi, figlio del critico cinematografico Alfio Cantelli che collaborò anche al Piccolo, scrisse un libro sulla sua esperienza a San Patrignano, “La quiete sotto la pelle” uscito nel ’96, in cui raccontava la realtà dolorosa e tormentata della comunità, senza sconti sui fatti controversi che ne segnarono la tumultuosa crescita.
Oggi, sulla scorta del successo del documentario di Netflix, il libro viene ripubblicato da Giunti nei primi giorni di marzo, con un nuovo titolo, “Sanpa, madre amorosa e crudele”, e un’introduzione che spiega il boicottaggio del memoir, firmata dallo stesso autore. Anche di questo Cantelli Anibaldi, filosofo, scrittore, vice presidente del Gruppo Abele, ha parlato col Piccololibri.
Per il Giorno del Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata il paginone centrale dell’inserto è dedicato al film “La città dolente” di Mario Bonnard (1949), unico film di finzione a raccontare il drammatico svuotamento di Pola nel ’47, con la partenza di 30mila profughi su 32mila residenti. Una pagina storica sullo schermo, ma anche l’esempio di una pellicola moderna, per stile e strumenti, anticipatrice proprio di quelle docufiction che oggi animano il dibattito, riaprendo pagine mai pacificate.
Fondamentale per il film, unico nel filone del cosiddetto “Neorealismo di confine” a essere ancora oggetto di riscoperte e approfondimenti, fu l’apporto di un giovanissimo operatore, Gianni Alberto Vitrotti che, insieme al fratello Franco aveva raggiunto via mare Pola. Sistemato per tre mesi nell’ospedale cittadino, Vitrotti riprende la tragedia della popolazione italiana sradicata e invia il materiale a Roma al padre, Giovanni Vitrotti, operatore cinematografico, che ne parla col regista Bonnard.
“La città dolente” vede la luce in studio a Roma, ma con lunghe sequenze dei filmati di Vitrotti e del documentarista Enrico Moretti, sui quali si innesta la vicenda melodrammatica scritta da Federico Fellini con Aldo Debenedetti e Anton Giulio Majano. “La città dolente” esce nel ’49, depotenziato per opportunità politica, ma, nonostante il clima di tensioni in cui nasce, mantiene un interesse non esclusivamente propagandistico.
Una scrittrice da riscoprire, cui l’inserto riserva una pagina, è quella della poetessa Lina Galli, tra le principali voci dell’esodo, ma non solo. La guerra, la perdita, il dolore di un popolo, sono temi al centro di almeno tre delle sue raccolte, dove la tragedia dell’Istria diventa paradigma di un tempo senza pietà e di un mondo in sfacelo. N
elle raccolte successive, Galli evidenzia una forte introspezione psicologica e, dall’esperienza dell’esilio, si alza a toccare temi come la precarietà della vita, la solitudine, la fede, l’inappagato istinto materno. Molto attiva nel mondo culturale cittadino, alla Fidapa, al Circolo della Cultura e delle Arti e alla Società Artistico Letteraria, accanto al suo fondatore Marcello Fraulini e alle amiche scrittrici Nora Baldi, pupilla di Saba, e Nike Clama, Lina Galli riuscì a mettersi in dialogo anche con autori al di fuori del suo contesto territoriale, e strinse amicizia con Diego Valeri, al quale la accomunava la fede nella natura e nella vita.
A riaprire una pagina della recente storia culturale triestina è infine la “mappa” firmata dall’artista Andrea Binetti, che rievoca le mitiche serate dei cast del Festival dell’Operetta al ristorante sotto l’Arco di Riccardo, coccolati dai manicaretti della signora Patrizia, tra lubianske, cori, aneddoti e balli improvvisati in piazzetta. La chiave di lettura dello sfoglio, in prima pagina, è firmata dallo scrittore Angelo Ferracuti che arrivando a Trieste dalle Marche, a fine anni ’70, scopriva la fascinosa aria di confine e l’eterno mistero di una città straniera. —
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