Il giovane Pavese in vacanza scopre il fantastico mare
la recensione
L'estate del 1922 è stata memorabile per il giovane Cesare Pavese. Non ancora quattordicenne, il futuro scrittore - che era nato a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908 e sarebbe morto suicida a Torino il 27 agosto del 1950 - partecipa a un campo estivo con gli scout, dodici giorni al mare in Liguria. E pensa bene di tenere un diario di quell'esperienza per lui nuova e straordinaria, un testo che, riemerso dagli archivi del Centro Studi "Gozzano-Pavese" dell'Università di Torino, è stato pubblicato, per la cura di Mariarosa Masoero, da Galata Edizioni (pp. 124, euro 12,00), in un volumetto che raccoglie anche un poemetto giovanile di ambientazione indiana (introdotto da una nota di Felice Pozzo): “Cesare Pavese, Inediti: Dodici giorni al mare (1922); Amore indiano (1923)”.
La partenza del gruppo, in treno, è dalla stazione ferroviaria di Torino: dopo le «ultime raccomandazioni» e gli «ultimi auguri», si parte. Da Torino a Celle Ligure, con cambio a Savona tra «folla» e «confusione». Giunto a destinazione con una ventina di compagni, si montano le tende nel campetto da calcio adiacente la parrocchia, posto «in una valle che sbocca al mare». La vita del campo è caratterizzata da rigide regole e orari ferrei: l'odiata sveglia alle 5.30 («mandata al diavolo più che mai»), l'igiene personale, l'alzabandiera, la Santa Messa, la colazione, la spesa in paese, il pranzo, i giochi, l'attività sportiva, i bagni al mare, il biliardo, le gite a Stella San Martino, Albissola, Savona, Genova, la cena, il rapporto, la preghiera serale, i turni di guardia.
Ma l'elemento che più affascina il giovane Pavese - e che sarà centrale in tanta della sua produzione letteraria, a partire da una delle sue prime poesie, I mari del Sud - è proprio il mare, contemplando il quale prende l'abbrivio la fantasticheria del futuro scrittore, magari quando si ha «la fortuna di assistere all'entrata di un piroscafo, che luminoso, per le lampade delle cabine e per i fanali degli alberi, s'inoltra maestosamente nell'acqua calma» del porto di Genova con il «cupo boato» della sirena che pare «risvegliare tutta l'immensità addormentata». Medita il giovane Pavese, già propenso alla fantasticheria creativa: «Chissà da quale lungo viaggio tornava quel transatlantico dalla mole enorme e dai fianchi poderosi? Chissà quante persone portava nel suo seno?».
Questo diario delle vacanze è un testo acerbo, certo, ma è degno di interesse non solo per la curiosità biografica. Esso lascia infatti intravedere - come segnala acutamente Mariarosa Masoero nella sua preziosa introduzione - «qualche timida traccia del futuro scrittore: la tendenza all'autoconfessione si coniuga con la precisa intenzione di rivolgersi a un lettore, con la lucida previsione di un pubblico, ipotetico ma desiderato, possibile, anzi probabile, in una scrittura densa di similitudini, immagini, minuziose descrizioni di paesaggi». —
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