«Il gay pride a Trieste senza il Comune? Vuol dire che serve»

Porpora Marcasciano, presidente del Movimento identità trans  presenta oggi al Caffè San Marco il suo ultimo libro



«Ho 61 anni e la prima volta che ho visto delle transessuali ne avevo 9, era un periodo in cui di loro non si sapeva nulla». Porpora Marcasciano, presidente onorario del Movimento per l’identità trans (Mit), sarà oggi a Trieste per presentare “L’aurora delle trans cattive” (Alegre), alle 18 al Caffè San Marco nell’ambito del progetto “Varcare la frontiera #6”. «Ho cercato - dice - di ricostruire la genealogia di un’esperienza che esiste da che mondo è mondo, ma che è sempre stata vittima di una rimozione storica. E l’ho fatto attraverso la mia testimonianza, attraverso una narrazione personale di luoghi e situazioni. Provando a non dare certezze, ma a porre domande a chi legge, perchè solo così ci si incuriosisce e si approfondiscono i fatti». Il libro rivendica il percorso compiuto dai trans fino alla conquista del riconoscimento giuridico con la legge 164 dell’82. Un percorso sofferto, ma anche grandioso e ironico, che sollecita una riflessione sulla nostra, comune e condivisa, dignità sociale.

Perchè definisce “cattive” quelle prime trans?

«Tra gli anni ’60, ’70’, ’80 le persone trans non erano accettate, contemplate, articoli di legge stabilivano che chi non vestiva con abiti consoni al sesso di nascita commetteva un reato. Già questo descrive l’ambiente in cui siamo cresciute. Non eravamo brave ragazze, non lo potevamo essere, non esistevano nè garanzie nè possibilità, tutto era riportato alla prostituzione, che rimaneva l’unica alternativa di sopravvivenza. Il mio tentativo è quello di descrivere una fase che ora ci sfugge, la fatica di essere trans in quel periodo e come attraverso l’esperienza delle pioniere si sono aperte le strade che oggi percorriamo».

Trans cattive esistono ancora?

«Sicuramente. Chi è meno garantito di altri, meno facilitato nell’accesso alla vita, diventa automaticamente cattivo. Oggi potrebbero essere le trans migranti, che non hanno diritti, non hanno riconoscimenti e quindi sfuggono per forza di cose alle regole, a stili di vita più sobri».

C’è un altro aggettivo che non le piace: “normale”.

«Non è che non mi piaccia, cerco di declinarlo nella maniera più corretta. Essere normali vuol dire rientrare nei modelli accettati e accettabili, ma questo tipo di normalizzazione non prevede l’esperienza trans. La normalità significa che i maschi sono uomini e le femmine sono donne, punto. Il resto è ancora tutto da costruire. Voler essere tranquille madri o padri di famiglia, è una ricerca faticosa, spasmodica, per tutta una serie di motivazioni culturali. La normalizzazione è un modello da cui siamo stati storicamente esclusi, bisognerebbe cambiare a monte. Siamo lontani da questo».

Qual è lo stato di salute dei diritti delle persone transessuali?

«Il mondo dell’associazionismo si è fatto carico di portare avanti la realizzazione dei diritti, il percorso di emancipazione, ma questa è una fase culturalmente e politicamente molto difficile. Le richieste sono state messe nell’angolo da una politica poco attenta o insensibile. Oggi i diritti delle persone trans non passano attraverso le leggi, ma dai tribunali. La battaglia per il cambio del nome, riconosciuta in molti paesi dalle leggi, in Italia non c’è. Una sentenza della Cassazione ha stabilito che una persona può cambiare il nome in base alla propria identità e, aggiungo, in base alle proprie sembianze. È stato un tribunale a emettere la sentenza che fa testo, ma la legge, il dibattito politico non esistono».

E il lavoro?

«È un’altra battaglia campale, la più difficile in assoluto, perchè non si risolve nè con legge nè con sentenze. È un processo culturale molto più lungo che richiede un cambio di mentalità. L’accesso al lavoro risente di pregiudizi storici antichi, non solo verso le persone trans, ma anche nei confronti di altre categorie. Scardinarli non è semplice. Succede anche alle donne rispetto agli uomini, a noi ancora di più».

Il Comune di Trieste ha negato il patrocinio al gay pride.

«Trieste è governata da una compagine conservatrice, non mi sorprende. La posizione del Comune è molto diffusa, non solo in Italia ma in diverse parti del mondo c’è un ritorno al conservatorismo, a posizioni molto rigide di destra. Però potremmo trasformare questo aspetto negativo in un punto di forza. I diritti non sono regalati e garantiti, vanno conquistati. E se il Comune ha negato il patrocinio al pride, il pride dovrà avere un senso più profondo di rivendicazione dei diritti, innanzitutto quello alla visibilità, perchè questo è, una manifestazione di visibilità, una festa che si svolge in tutto il mondo. Essere visibile, esserlo pubblicamente, è un atto politico molto forte. Dobbiamo riaffilare le armi e trovare strategie di lotta adeguate ai tempi».

Ma i pride sono ancora necessari?

«Lo dimostra il diniego di Trieste. In diverse parti del mondo sono vietati, e questo ci fa capire che sono oggi più che mai necessari e importanti. Ed è importante anche guardarsi, perchè con la diffusione dei social le persone stanno dietro un computer e non si vedono più».

Che cosa le manca di quando le trans erano, come dice nel libro, “favolose”?

«Intanto l’euforia, la voglia di fare, perchè c’era ancora il bisogno e la necessità di costruire. Oggi è come se ci si fosse appiattiti, fermati. Quell’euforia politicamente e culturalmente costruttiva, ci riempiva e colorava la vita».

Se lei potesse dire qualcosa a sindaco e giunta...

«Direi che gay, lesbiche e trans sono una fetta di popolazione consistente. Un sindaco deve rappresentare tutti, anche quella parte che non è minoranza nonostante non si veda». —

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