Il fiume misterioso ricompare sottoterra nel lago dimenticato

Mi affaccio dal ballatoio di tubi innocenti arrugginiti e guardo una decina di metri in basso. La luce del casco si riflette sulla superficie del lago, dove l’acqua del Timavo appare liscia e immobile come uno specchio. La prima cosa che viene in mente è la Grotta Azzurra di Capri. Non siamo a quei livelli di magia cromatica, certo, ma ci manca poco. La Grotta del Lago, dove mi trovo, è un altro scherzo del fiume Timavo/Reka, uno dei tanti. Il lago sul quale mi accingo a scendere con la corda fino posare il sedere dritto nel canotto che abbiamo gonfiato e calato poco fa, non dovrebbe essere qui. E non dovrebbe esserci la caverna che lo ospita, a centotrenta metri dalle bocche del Timavo, cinquanta metri dietro la Chiesa di San Giovanni di Duino. Questa è davvero l’ultima acqua sotterranea del fiume prima delle foci, ed è un autentico gioiello naturale. E dire che la Grotta del Lago, a rigore, è un ex grotta. Fu scoperta il 10 marzo del 1970, durante gli scavi per la posa dell’acquedotto. Una mina innescata dagli operai della Montubi scoperchiò una voragine in fondo alla quale, guarda un po’, occhieggiava il Timavo. I geologi gridarono al miracolo, visto che, secondo ragionevolezza scientifica, lì il fiume avrebbe dovuto correre in gallerie completamente allagate. Invece il Timavo aveva avuto tutto il tempo di scavarsi una comoda caverna proprio a un passo dalle risorgive. Gli speleosub, primo fra tutti Luciano Russo, si tuffarono con gioia nel lago appena venuto alla luce per esplorare il tratto del reticolo sotterraneo dove indugia il fiume a ridosso delle foci. Scesero fino a 60 metri, e scoprirono che una delle gallerie sommerse portava fuori dalla terza bocca delle risorgive. Poi, siccome era pericoloso lasciare aperta la voragine, la volta della caverna venne ricostruita con un ampio tetto di cemento armato, munito di tombino d’accesso e di un terrazzino di tubi innocenti intrecciati per favorire l’entrata. Le ultime esplorazioni subacquee, effettuate da speleosub francesi e italiani tra cui Sergio Satta nell’ambito del Progetto Timavo, risalgono al 1992, per cui sono più di vent’anni che nessuno mette piede nella Grotta del Lago. La caverna si trova in una proprietà privata, nei terreni di Davide Peric, che custodisce con cura questa meraviglia naturale, consapevole del suo enorme valore scientifico e paesaggistico.
Adesso, assistito dalla guida speleo Clarissa Brun e assieme allo speleosub Duilio Cobol - figlio di quel Giorgio Cobol che nel ’68, poco prima di morire in un incidente, conquistò il record mondiale di immersione sottoterra e fu uno dei protagonisti delle esplorazioni subacquee pionieristiche nel Timavo -, scendo lungo la corda e mi accomodo nel canotto. Come due ragazzini in un mare notturno iniziamo la visita all’ultimo lago sotterraneo del Timavo. Dopo tanti anni è un po’ come entrare nella stanza segreta di un antico palazzo, con quel tanto di familiare e allo stesso tempo sconosciuto che hanno i luoghi dove è abituato a regnare il silenzio. Con pigra navigazione ci spostiamo da una parte a. ll’altra della cavità. Solo lo sciabordio del remo disturba la quiete del lago, su cui pendono giovani e scintillanti stalattiti, mentre le sagole usate trent’anni fa dagli speleosub come filo d’Arianna per non perdersi nel nulla spuntano a pelo d’acqua simili a strane ragnatele. Le nostre lampade ai led creano caleidoscopici giochi di luce sulla pelle del Timavo, che se ne sta fermo e tranquillo come se non ci fossimo. Ma chissà cosa ribolle sotto quest’acqua, laggiù nelle profondità, prima che il fiume ritrovi la via del mare uscendo con i suoi ruggiti alla luce del sole.
È tempo di finire questo viaggio alla ricerca del Timavo, iniziato in Croazia, alle sorgenti nei boschi del monte Dletva, continuato in Slovenia lungo la dolce e selvaggia Valle dei Mulini e proseguito negli abissi sotterranei dove fa la sua timida comparsa. Perciò riemerso dalla Grotta del Lago mi cambio, attraverso la Statale 14 e raggiungo le Bocche del Timavo. Eccolo finalmente il fiume uscire dai suoi rifugi ipogei e prendere la via del mare. L’acqua sgorga dalla roccia come per miracolo, una fontana naturale che anche agli occhi sgamati di noi gente del terzo millennio non può non apparire simile a un prodigio. E quanta storia si è accumulata intorno a queste risorgive: dai dinosauri che qui pascolavano 70 milioni di anni fa, fino agli insediamenti del Paleolitico, e poi di corsa lungo i secoli tra il mito degli Argonauti, le guerre tra Istri e Romani, e avanti nel medioevo e oltre fino alla Prima Guerra Mondiale, con la sua follia ricordata dall’inutile sacrificio di Giovani Randaccio. E poi il secondo conflitto mondiale fino all’esodo degli istriani, che qui fondarono il Villaggio del Pescatore...Come può stare tanta Storia in così poco spazio? (Continuerò a stupirmi, anche quando, più tardi, visiterò la mostra allestita dal Gruppo Speleologico Flondar al Villaggio del Pescatore, “Storia e preistoria attorno al Timavo”: andateci, è un mirabile esempio di cosa può fare il volontariato per il turismo, telefonare 3396908950).
Appoggiato alla balaustra osservo il Timavo ribollire alle foci. Ma non me ne voglio ancora distaccare. Il fiume qui è più vivo che mai, e siccome l’ho visto nascere e crescere e ora voglio vederlo morire. Imbocco il sentiero che costeggia la riva sinistra, e in breve raggiungo la darsena del Cantiere Timavo, dove l’azienda Gnowee noleggia imbarcazioni di ogni tipo. Scelgo un kayak. Poco dopo sto pagaiando lungo il canale navigabile, oltrepassato il quale giro a destra e mi infilo nell’estuario. Risalgo la corrente fino a incrociare le Cartiere Burgo, svolto ancora a destra e sono nel ramo principale della foce. Il panorama cambia di colpo. Tutto è verde, l’acqua ha il colore dello smeraldo, dalle sponde rigogliose si levano in volo pattuglie di germani reali, mentre in cielo sfreccia una coppia di aironi in formazione. Sembra di essere su un Mekong in miniatura. La corrente contraria crea vortici e mulinelli, il Timavo vuol giocare, un po’ mi lascia passare e un po’ no. A un altro bivio svolto a sinistra. In una minuscola insenatura, mimetizzato tra alberi e frasche è ancorato un cabinato a vela di sei metri. A bordo l’equipaggio di anziani turisti austriaci sta facendo colazione. Hanno passato la notte qui, nascosti nel cuore del delta, nascosti al mondo intero. «Vado bene per le bocche del Timavo?», chiedo. «Es tut mir leid, aber ich verstehe nicht», rispondono. Chissà se ricordano come i loro nonni fecero piovere tonnellate di granate da queste parti cento anni fa. Continuo a pagaiare e mi infilo in un canale ostruito da un intrico di rami dispettosi. Torno indietro cercando di domare la corrente. Sotto il kayak l’acqua limpida svela spettri di alberi abbattuti con le foglie ancora verdi. Anche loro non ne vogliono sapere di morire. Alla fine mi fermo davanti alle rapide create dai dislivelli artificiali del vecchio acquedotto, sotto le risorgive. Sono a pochi metri dalla terza bocca del Timavo, ma dalla mia prospettiva non la posso vedere. Giro la canoa e torno indietro. Stavolta la corrente è a favore, il fiume mi accompagna benevolo e, poco dopo, quasi senza accorgermene, sono in mare aperto. L’acqua agitata ora è di un colore turchese sporco, un cormorano si tuffa e rituffa davanti al kayak in cerca di pesci.
Addio Timavo. O forse no. Forse la sua è solo una morte apparente, anzi, una rinascita. Il Timavo c’è ancora, c’è sempre, respira da qualche parte nel fondo del golfo. Nella sua corsa dalle sorgenti al mare tante volte è sparito, non si è fatto più vedere, e poi eccolo rispuntare a sorpresa, magari dove meno te lo aspetti. Niente finisce mai davvero, sembra dire il fiume fantasma, e mentre pagaio verso il largo mi sembra ancora di sentire la sua voce.
(6 - Fine. Le precedenti puntate sono uscite il 2, 9, 15, 23 e 27 agosto)
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