Il film carnico “Maria Zef” tra i classici restaurati al Lido poi in sala per i “Mille Occhi”

All’epoca della sua realizzazione, nel 1980, e subito dopo l’uscita al cinema e in tv l’anno seguente, “Maria Zef” fu accolto con diffidenza e un certo malumore, in particolare in Friuli, dove il film fu bersaglio di aspre polemiche dovute all’immagine non proprio idilliaca del vecchio mondo contadino carnico che ne sarebbe emersa. Ma il tempo è stato galantuomo e ha finito per rendere il giusto merito a Vittorio Cottafavi, autore dell’adattamento del romanzo di Paola Drigo pubblicato nel 1936 oggi divenuto un classico. Tanto da finire nel prestigioso elenco di restauri e film culto che saranno presentati nelle prossime due settimane alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Venezia Classici” e subito dopo a Trieste, all’interno del fitto programma del festival “I mille occhi”.
Cottafavi inseguì l’idea di una trasposizione di “Maria Zef” su grande schermo per lungo tempo, fin dall’inizio della sua carriera, ma - anche per le asperità delle vicende raccontate nel romanzo - non ottenne mai il necessario visto del Ministero. Troppo cruda, amara, dolorosa la descrizione di questo Friuli dei “vinti” che non risparmia particolari scabrosi come l’incesto e l’endogamia, in un contesto che non lascia scampo, oppresso da miseria e privazioni.
Luigi De Marchi, regista trevigiano, arrivò prima di lui: nel 1953 realizzò “Condannata senza colpa”, pellicola a basso costo e liberamente adattata che ebbe poca eco e finì presto nel dimenticatoio. L’opportunità per Cottafavi si presentò più avanti, quando il suo nome era già affermato sia al cinema che in televisione. Il progetto vide infatti la luce grazie alla nascita del terzo canale Rai, il cui fine, in un primo momento, era quello di valorizzare il patrimonio culturale locale. Una delle caratteristiche salienti del “Maria Zef” di Cottafavi, nato come miniserie in due puntate e girato tra Udine, Forni di Sopra e Arta Terme, è certamente l’uso della lingua friulana, scelta che conferiva alla pellicola un senso di realtà con pochi precedenti e che la affianca idealmente a un’altra opera maestra come “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi (1978), di lingua lombarda.
La cura dei dialoghi di “Maria Zef” fu affidata al poeta e saggista carnico Siro Angeli, che si assunse anche l’onere di interpretare il difficile ruolo di Barbe Zef, montanaro aspro e rude, al tempo stesso vittima e carnefice. Al suo fianco solo interpreti friulani non professionisti, a cominciare dalle giovanissime sorelle Zef, Mariute e Rosute (Renata Chiappino e Anna Bellina), dalla madre oppressa (Neda Meneghesso) e tutta una serie di personaggi secondari. Al pari dell’opera di Paola Drigo, di chiara matrice verista, la cifra che contraddistingue anche la versione cinematografica di “Maria Zef” è il sentimento di pietà. C’è una sincera e commossa compassione che guida la mano di Cottafavi nell’osservazione di una realtà arcaica, emarginata e depressa, dove anche il vizio e l’abuso sono la conseguenza diretta di una disperazione che si abbatte inesorabile su tutti, senza esclusioni. Resiste all’abbruttimento qualche breve istante di effimera dolcezza e di speranza, ben presto spazzati via dalla rassegnazione per una condizione da cui non esiste possibilità di salvezza. —
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