Il fascino del Giapponismo contamina gli europei dai dipinti all’arredamento

«Japonisme»: con questo termine, coniato nel 1873 dal critico francese Philippe Burty, si intende l’espressione di un gusto legato all’influenza dell’arte giapponese sull’arte e la cultura occidentale, in un periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Dopo un isolamento durato più di due secoli, intorno al 1854 il Giappone iniziò ad instaurare rapporti diplomatici e commerciali con gli Stati Uniti, la Russia, i Paesi Bassi, l'Inghilterra e la Francia. Le prime merci che giunsero in Occidente furono ceramiche, lacche, stampe; queste diedero il via a una vera e propria moda che coinvolse gli ambienti artistici e letterari d’avanguardia ma anche, più in generale, la borghesia dell’epoca. I manga di Hokusai o le brillantissime stampe di Utamaro e Hiroshige, protagonisti dell’ukiyo-e, ovvero delle “immagini del mondo fluttuante”, affascinarono gli Impressionisti francesi, i pittori e gli architetti inglesi, i secessionisti viennesi.
Claude Monet fu tra i più appassionati collezionisti di stampe giapponesi: ne possedeva più di 250 e le pareti della sua casa a Giverny ne sono tuttora letteralmente rivestite. Vincent Van Gogh nel 1888 scriveva al fratello Theo: “Non si potrebbe studiare l’arte giapponese, mi sembra, senza diventare molto più sereni e più felici”.
Un’esposizione appena inaugurata a Palazzo Roverella di Rovigo, per la prima volta indagaa le tendenze giapponiste dell’Europa tra Ottocento e Novecento, dalla Germania all’Olanda e al Belgio, dall’Inghilterra e dalla Francia all’Austria, alla Boemia fino all’Italia.
Si tratta di “Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea. 1860 – 1915” curata da Francesco Parisi e articolata per aree artistiche e geografiche, con un’attenzione particolare rivolta alle grandi Esposizioni Universali che in quei decenni contribuirono a far conoscere quel mondo così lontano, misterioso e magico rappresentato dal Sol Levante: dall’esposizione londinese del 1862, a quelle parigine del ’67 e’78, fino all’esposizione del cinquantennale dell’Unità d’Italia del 1911 che ebbe grande influenza su molti artisti delle nuove generazioni.
Accanto agli originali provenienti dal Giappone - ceramiche, kimono, bronzi, scatole in lacca e oro, molte incisioni tra cui la famosa “Grande onda” di Hokusai nella sua prima edizione - vengono proposte le opere che ne derivarono rielaborandone lo stile, le suggestioni: opere pittoriche e grafiche ma pure piatti, tessuti, oggetti d’arredo, illustrazioni di libri, manifesti.
Si possono ammirare i dipinti di Paul Gauguin, Claude Monet, Pierre Bonnard, Fernand Khnopff, Giuseppe De Nittis, Anselmo Bucci, Mario Cavaglieri, i pastelli di Edgar Degas e Fernand Khnopff; le tempere di Carl Otto Czeschka, una china di Vincent Van Gogh, i disegni a matita di Gustav Klimt, gli studi di Charles Rennie Mackintosh.
Il “Paesaggio con il monte Fuji in lontananza” del pittore boemo Emil Orlik, scelto a immagine della mostra, è posto accanto alle sue litografie realizzate dopo aver appreso la tecnica dei colori ad acqua durante il suo viaggio in Giappone. E ancora, i tessuti di Koloman Moser e Henry van de Velde, i tavolini in legno intarsiato e i vetri di Émile Gallé, per giungere alle ultime sale dove si incontrano un paravento di Galileo Chini, una singolare seta dipinta da Giacomo Balla, i manifesti del tedesco Adolf Hohenstein e del triestino Marcello Dudovich.
L’eleganza, l’essenzialità, la nitidezza dell’arte giapponese suggerisce loro una semplificazione formale e una cura del tratto e del dettaglio tali da rendere le composizioni preziose, calme e serene, proprio come intendeva Van Gogh.
La mostra, aperta fino al 26 gennaio, è corredata da un ricco catalogo con i saggi di Francesco Parisi e Rossella Menegazzo, curatrice della sezione giapponese, oltre che di altri illustri studiosi (Silvana Editoriale). —
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