Il diario di José Saramago nell’anno del Nobel: «Quel palloncino sgonfiato era il mondo»

TRIESTE. Quei taccuini abbandonati nella soffitta di tutte le case estive dell’infanzia, chiusi con un elastico e sepolti in remoti cassetti, custodi di tracce insignificanti che presto ci siamo stufati di annotare. Con che trepidazione ci tuffiamo a leggerli quando per caso li ritroviamo in una vecchia valigia, appartenuti a chissà quale dei nostri familiari e amati, con che eccitazione ci sforziamo di decifrarne la calligrafia, guardandoci le spalle con il batticuore dei giochi proibiti.
E i diari degli scrittori? È solo questo assunto di segretezza e intimità a renderli spesso le opere più interessanti delle nostre biblioteche?
Nel 2001 lo scrittore portoghese José Saramago diede annuncio dell’esistenza dei “Quaderni di Lanzarote – Diario VI”, ma di quelle pagine non si seppe poi nulla, smarrite nella memoria di un computer che nessuno usava più. Ci sono voluti quasi vent’anni e un buon numero di “casualità saramaghiane” perché il testo venisse ritrovato e ora pubblicato con il titolo “Diario dell’anno del Nobel” (Feltrinelli, pp. 259, 18 euro).
Incominciamo a leggerlo spinti dalla seduzione di pagine private, per di più andate a lungo perdute. Ma a catturarci subito è la generosità con cui lo scrittore condivide aneddoti, incontri, recensioni favorevoli (quale scrittore è immune dalla vanità?), corrispondenze epistolare con i lettori più molesti (ricordandoci che per un autore nulla conta più dei suoi lettori). Soprattutto siamo colpiti dalla parabola di un uomo che, nato poverissimo, arrivato alla letteratura da sentieri poco convenzionali, dopo aver studiato come fabbro meccanico, divenne una delle voci più importanti del ’900 e seppe attraversare tutti i terremoti dell’esistenza finendo per vivere esule – lui, poeta di una città sull’acqua in quell’isola poetica e aridissima che è Lanzarote.
Scopriamo che amava le installazioni artistiche e detestava il pensiero unico, credeva che l’ironia non potesse cambiare il mondo ed era incline a non fare della teoria sul proprio lavoro di scrittore. Inventava storie per esprimere preoccupazioni, interrogativi. Cosa lo preoccupava delle culture europee? Sono “confuse, turbate, in attesa di non si sa cosa” annota. “Si è voluta inventare, volontariamente, una cultura europea e adesso quella europea non ce l’abbiamo e di quelle nazionali non sappiamo cosa farne”. Era il 1998.
E poi l’8 ottobre, solo una riga: “Aeroporto di Francoforte. Premio Nobel.”
Dobbiamo arrivare al 7 dicembre per leggere il testo che Saramago pronunciò davanti all’Accademia di Svezia. Il titolo è una dichiarazione di poetica: “Di come il personaggio fu maestro e l’autore il suo apprendista”. Sedici pagine, dai nonni analfabeti che ogni giorno si alzavano all’alba per pascolare una dozzina di scrofe e raccontavano storie sotto il fico in giardino, fino a quel palco di Svezia. Pagine che hanno fatto la storia della letteratura, anche se a restare indimenticabili sono due note più brevi, all’inizio e alla fine, che paiono racchiudere il talento più difficile di uno scrittore: consegnare a due frammenti di quotidianità personale il senso di una vita.
“5 gennaio. È morta Ilda. Ilda era Ilda Reis una delle principali esponenti della pittura portoghese. Ha goduto di quella felicità surrogata che il successo solitamente vende a caro prezzo, ma le era sfuggita la gioia di vivere” e dopo una descrizione critica della sua opera: “Siamo stati sposati per ventisei anni. Abbiamo avuto una figlia”.
E poi il 26 di settembre. Saramago a sei o sette anni passeggia con la madre tenendo al filo il suo primo palloncino. Cammina gagliardo, sente una risata alle spalle: due uomini indicano il palloncino sgonfiato senza che lui se ne accorgesse, era rimasta solo “una roba sporca, rugosa e informe” trascinata da una cordicella: “Non riuscii neppure a piangere. Abbandonai la cordicella, mi aggrappai al braccio di mia madre” mentre gli uomini continuano ad additarlo e ridere. “Quella cosa sporca, rugosa e informe era davvero il mondo”. —
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