Il “cugino di campagna” triestino che andava al bagno al Pedocin

TRIESTE «Eravamo ragazzi di 24 anni, scrivemmo “Anima Mia” e decidemmo che fossi io a cantarla con una voce particolare, in modo da stupire». Nato il 5 luglio 1948 a Trieste, in via della Galleria 19, al primo piano di un appartamento che aveva un giardino pensile, dove ha passato i primi 5 anni di vita, battezzato a San Giusto: non molti conoscono le origini di Flavio Paulin, di papà triestino e mamma romana. Paulin è stato il fondatore e il primo cantante, nel 1970, de I Cugini di Campagna, autore di brani come “Anima Mia”. Una sintesi che non basta, però, per spiegare il genio musicale di Paulin, che esce dalla band nel 1977 e sceglie una strada più difficile: «Mi piaceva l’idea che l’arte non mi fosse debitrice per vivere». All’avanguardia, un passo avanti, pronto a rinunciare al successo di massa che ha assaporato per seguire la passione per la musica intesa come cultura.
Cosa ricorda dei primi anni nella città natale?
I ricordi sono indelebili e ancora oggi quando sento l’accento triestino lo riconosco subito. Andavo in bicicletta in Piazza Unità, al mare alla Lanterna, al “Pedocin” insomma. Mio nonno Alberto Paulin, antifascista, era un uomo molto intelligente e capace. È stato fondatore e direttore de Il Corriere di Trieste nel 1945. In casa si diceva fosse entrato a Il Piccolo come operaio e ne fosse uscito come vicedirettore, ma non ho mai approfondito. Mio papà, maresciallo dell’aeronautica, fu poi trasferito a Roma, ha lavorato per il Ministero e siamo rimasti lì. Tornai in città il 9 maggio 1975 per un concerto al Politeama Rossetti con i Cugini, in quell’occasione avevo voluto rivedere i miei luoghi d’infanzia, feci una foto a San Giusto che ancora conservo.
La musica quando entra nella sua vita?
Ha fatto parte di me fin da bambino, cantavo e mia mamma ne era orgogliosa e mi faceva esibire davanti agli altri: era un dono di Dio, il mio unico merito è di averlo perfezionato e coltivato, poi si vede che era destino e anche fortuna. Nella mia mente conservo la musica che parte dagli anni ’50 fino ad oggi, un tesoro di repertori da Frankie Avalon, Elvis Presley ai Beatles e Rolling Stones...
L’esordio?
Ho cominciato come bassista a 12 anni. Studiavo anche la chitarra. Debutto in una sala parrocchiale verso i 16. Ho sempre avuto una certa indole a comporre, sono un melodista, ritroso a cantare brani di altri, l’idea di scrivere qualcosa che possa emozionare è uno stimolo naturale. Ho proseguito la mia giovane carriera a Roma negli anni ’60 con un gruppo nel quale facevo solo il cantante: mi fu riconosciuta la capacità di essere un frontman.
E I Cugini di Campagna?
Verso il ’67 misi un’inserzione sul giornale “Ciao Amici” e mi risposero i fratelli Michetti, mi chiamarono per un’audizione nella loro band (ancora non erano i Cugini, che abbiamo fondato poi alla casa discografica). Cercavano un bassista che sapesse cantare bene. Entrammo in amicizia e cominciammo a lavorare più seriamente. Avevano un aggancio con i produttori Gianni Meccia e Bruno Zambrini dell’etichetta Pull. Per diversi anni abbiamo maturato esperienza in studio, poi ci hanno fatto interpretare delle canzoncine scherzose che non erano proprio il massimo della qualità, ne facemmo comunque un disco e partecipammo a diversi festival.
La svolta con “Anima Mia”?
I produttori ci dissero di aver finito le finanze e allora chiedemmo un’ultima possibilità: scrivere un pezzo di nostro gusto. Eravamo ragazzi di 24 anni, scrivemmo “Anima Mia” e decidemmo che fossi io a cantarla con una voce particolare, in modo da stupire. Non avevamo niente da perdere. Fu la prima canzone che scrivemmo ed era molto bella. Cantata così era qualcosa di rivoluzionario. I produttori quando la sentirono furono entusiasti e prese corpo l’idea di continuare a cantare in falsetto, la cosa aveva del fascino. Fu un successo enorme, la canzone rimase 52 settimane in classifica tra le prime dieci. Forti di questo successo proseguimmo scrivendo altre hit: “Innamorata”, “È lei”, “Preghiera”, una dietro l’altra.
Anni intensi?
Eravamo giovanissimi e tutta Italia cantava le mie canzoni, un’emozione non indifferente, per non parlare degli spettacoli, le ragazze che ci amavano, sono cose indimenticabili, che fanno parte di una storia umana molto particolare, ringrazio Dio perché in questo caso io ho fatto poco e il Creatore molto.
Come mai uscì dalla band?
Non sono attaccato al denaro e alla fama, l’avevo provata ma arrivato a un certo punto mi ero stancato di rappresentare soltanto quell’angelico ragazzo biondo che parlava d’amore, mi aveva stuccato, mi avvicinavo ai trent’anni, a una certa maturità. E poi dentro di me maturavano altre idee, volevo parlare di temi più importanti, è una molla che viene da dentro. Volevo aprirmi a nuovi orizzonti, toccare problemi sociali, dimostrare che potevo evolvere nella costruzione della musica. È stata una scelta dura, ho avuto un po’ tutti contro.
È diventato architetto e ha uno studio immobiliare. Ma la musica non l’ha mai abbandonata.
Ho creato l’etichetta indipendente Private Artists Records. Abbiamo fatto diversi lavori con giovani artisti tra cui Enrico Bollero, uno dei protagonisti più interessanti della musica d’autore. Ora stiamo per pubblicare il concept album “Memorie dal futuro” di mio figlio Patrick, che ha voluto proseguire da dove io avevo lasciato. La storia continua.—
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