Il conte e la baronessa coppia dal blasone scintillante con una segretaria di troppo
Un aristocratico negli anni Dieci del Novecento aveva poche chance di opporsi alle rigide imposizioni d’amore della casta che esigeva nobile eguaglianza d’affetti. Il sangue blu mal si mischiava al rosso, con qualche deroga, va detto. Giacere con la serva non costituiva reato. La ragazzotta ne traeva giovamento, diventando la preferita del signore - l’occhio di riguardo, si dice - almeno fino a quando un’altra si sarebbe infilata tra le lenzuola del padrone. Storia vecchia, sette/ottocentesca e ancora più giù nei secoli.
AMORI D'ESTATE 2020 / TUTTI I RACCONTI
Il conte Parisi, trentenne fascinoso maschio incoronato di stirpe antica, era un discreto incantatore di femmine, è bene saperlo. Per nulla spocchioso il Parisi, tutt’altro, per nulla altezzoso, per nulla vanitoso o cose simili. Un bel tipo tirato su con dovizia d’educazione e rispetto per l’umanità.
Gente dabbène il conte babbo Ludovico e madame Amalia, mamma cara, sebbene potenti e con mani lunghe persino in Vaticano, per non parlare del resto. Ora, è luogo comune far scendere agli inferi tutti i Re perché chi comanda è solitamente più vicino a Satana che a Dio, ma per la miseria, esisterà qualche eccezione? O no?
Be’, Rinaldo Parisi, lo era. Comunque, i suoi gli combinarono l’incontro su misura. Ormai con sei lustri sulle spalle, il conte erede della fortuna Parisi, andava spedito all’altare in ottima compagnia. Avrebbe figliato, ramificando l’albero genealogico, come da prassi antica, consegnando al futuro le gesta del passato. La prescelta fu senza meno Margherita von der Leyen baronessa Fisher, lontana discendente degli Asburgo, assai graziosa, peraltro, con dimora fissa nel castello austriaco di Knittelfeld, in zona stiriana. Ludovico e Heinrich von der Leyen se la intendevano negli affari e pareva cosa saggia unire i due rampolli affinché le ricchezze si affiancassero; importava poco, invece, se i ragazzi si piacessero. Si sarebbero innamorati, prima o poi. E sennò, amen.
In casa Parisi, anzi, a palazzo Parisi, in terra goriziana, arrivò l’invito al ballo von der Leyen, gran festa nel maniero con eccesso di nobiltà europea.
Sette aprile 1910. I Parisi al completo, nemmeno dirlo ai massimi dell’eleganza - lady Amalia indossava un abito in due pezzi, corpino e gonna, in crespo di seta color vinaccia ricoperto da una rete in tulle nero ricamato, etichettato Marshall and Snelgrove - con Rinaldo in resta per nulla sereno, come in realtà lo erano tutti i nobilastri al cospetto della futura moglie mai vista prima, almeno non fosse una cugina, evento per nulla raro.
Padre Ludovico notò un Monet e altri impressionisti appesi nei vari saloni del castello Fisher, lui qualcosa d’arte ne capiva, oltre a quintali d’argenteria appena lucidata e ricchezze sparpagliate con raffinatezza.
Dopo una quindicina di baciamano a una quindicina di dame in età, col sedicesimo inchino Rinaldo sfiorò con le labbra (sfiorò, non baciò come si conviene) il dorso liscio della mano di Margherita, come definirla? La donna del destino? Il giovanotto si ricompose e ora sì che con delicatezza e discrezione iniziò ad ammirarla, sfiorandola idealmente, quella meravigliosa donna, quant’era bella. Rinaldo le sorrise, e fu gioia improvvisa, non se l’aspettava davvero così seducente. Lei ricambiò, il sorriso s’intenda, e i due sguardi s’incantarono nel più passionale primo incontro mai visto e nessuno dei due ebbe la forza di cedere a quell’intensità, tant’è che mamma Amalia, che se ne accorse, eccome, cercò di spegnere l’ardore, almeno per convenienza, con un lieve mancamento dovuto alle fatiche del viaggio, concentrando su di sé le attenzioni di dame e gentiluomini nei paraggi. Margherita e Rinaldo si cercarono tutta la sera, divisi com’erano da severi protocolli finché lei, un tipo assai ribelle alle convenzioni di corte, se lo prese di forza, sfidando le disapprovazioni del barone padre, che da quando Margherita divenne un’attraente donzella, combatté strenuamente per spegnere quel tratto di sconveniente follia della figlia.
I due se la svignarono, per dirla alla popolana, raggiungendo le scuderie da una porta del salone della caccia. Rinaldo imparò ad ascoltare i silenzi di una donna, che poi esaltano i gesti ben più veritieri ed espliciti di qualunque parola ben detta. Un ti amo pronunciato senza la carica emotiva del corpo non vale un fico secco.
I bei giovani s’infilarono in un antro mal illuminato dell’edificio, increduli e muti. Si guardavano e si riguardavano, seppur nella penombra, tenendosi strette le mani, vittime di una specie d’incanto d’amore, il più letale incanto d’amore di un inizio secolo piuttosto composto nei sentimenti, per la verità. Se poi gli amanti appartenevano all’alta società, ancor peggio; cresciuti a vivere diritti e con ferrei codici comportamentali da seguire, la coppia si trastullava in moine ridicole, perché così andava fatto. Punto e basta. Rinaldo aveva ascoltato quel che gli serviva, Margherita con gli occhi s’era espressa e giunse il tempo di un infinito bacio lontano dal chiasso elegante dei cristalli, dagli inchini, dal quartetto d’archi e dalle attenzioni di tutti per quei due. Il conte e la baronessa - esteticamente perfetti, ricchi, col blasone scintillante - nel ricovero dei purosangue non riuscivano a smettere di mangiarsi l’un l’altra, in un impeto di sensualità incontrollabile.
Negli anni Dieci del Novecento tutto questo era quanto di più unico potesse accadere a due nobili che si conoscevano da un’ora. Eppure accadde. D’altronde l’amore, che chiunque - letterato o popolano - ha tentato di definire convinto di aver coniato la verità assoluta, null’altro è che la conseguenza di un caso perfetto, in quell’attimo preciso, sotto una porzione ben definita di cielo, nel momento stabilito forse decenni prima, forse secoli, forse mai e soltanto in quell’istante.
Rinaldo e Margherita assecondarono quell’amore, non smisero di vedersi, di scriversi, di baciarsi, di desiderarsi, di immaginarsi, infine di fidanzarsi coi crismi imposti dai codici antichi e di proiettarsi a quel tredici novembre 1911, data scelta per rispondere sì davanti a Dio.
Nel maggio 1911 Rinaldo accese una sigaretta sul Molo San Carlo di Trieste, guardando il mare, e ogni boccata lo corroborava per l’imminente intervento a una riunione di possidenti terrieri, routine che lo annoiava a morte, per la presenza di un paio di personaggi tronfi a dir poco, gente da evitare con cura per la spocchia in eccesso.
La fatalità di cui sopra, proprio col Parisi, ci filava alla grande e improvvisò allo sposo una trappola seducente: Elena, diciamo solo Elena e basta. Una moretta non molto alta, con tutte le cose a posto, occhi grandi e profondi, Elena sapeva di femmina, a guardarla bene, di quelle create per farti sbandare pur volendo rigare dritto, ci siamo capiti? Rinaldo la notò con uno sguardo trasversale mentre allungava la mano per accomiatarsi da quel noioso ritrovo di collezionisti d’ettari. Elena era la nuova segretaria della Società Agraria. Lei lo fissò per bene, se n’era ben accorta del bell’uomo elegante che svettava nel gruppo dei panzoni ricchi. In realtà Parisi avrebbe voluto solamente lanciarle un sorriso e poi via di corsa, ma così non andò. Una settimana dopo Rinaldo trovò l’occasione per tornare a Trieste e fece un salto in Società con la più banale delle scuse: documenti mancanti per certe operazioni di acquisto di un nuovo appezzamento.
Il conte alloggiava all’Hotel de la Ville, un lussuoso albergo fra Palazzo Carciotti e la Chiesa greco-ortodossa. E proprio qui invitò a cena la signorina Elena, che accettò felice, senza faticare un granché, per la verità.
Poco prima di scendere dalla sua camera, Rinaldo ebbe un comprensibile ripensamento. In fondo Margherita, lui, l’amava davvero e lei lo amava terribilmente, ne era conscio. E allora perché quell’invito? Sapeva come sarebbe finita la cena, certe cose si capiscono prima che accadano. Pensò di rinunciare, ma sì, «inventerò una scusa». Quant’è maledettamente trasgressivo amare una donna e immaginarsi con un’altra nemmeno conosciuta, appena assaporata con un paio di sguardi e sognata, questo sì, molto sognata poco prima di addormentarsi. Ci sono cose da cui stai lontano, t’imponi e ne sei convinto, altre no.
E così nel tiepido inizio maggio 1911, a sei mesi dalle nozze più glamour d’inizio secolo, il conte Rinaldo Parisi palleggiava fra la vita e la morte con una Elena nuova di zecca nel cervello, che gli pulsava una passione irrinunciabile. Tant’è che Margherita, come tutte le donne con l’allarme incorporato, lettera dopo lettera e incontro dopo incontro, intuì che qualcosa s’era inceppato. Di sicuro mai immaginò di una signorina entrata dalla porta di servizio di casa Parisi, fatto sta che la giovane baronessa bella si rattristò, vergando missive preoccupate sull’improvvisa indifferenza del futuro consorte, ora sbadato e sfuggente. Sapendo Margherita dell’ennesimo viaggio a Trieste del suo Rinaldo, decise di scendere giù dalla Stiria per una visita inaspettata. Le peggiori, signore e signori.
Non fu semplice far coincidere la sorte. La giovane damigella faticò non poco, ma nella scrittura era abile. Si fece svelare, furbescamente, una possibile data di soggiorno nell’elegante de la Ville dell’ignaro nobiluomo, il primo sabato di luglio, allenando la psiche a qualunque evento possibile. In realtà la giovane baronessa temeva quel che poi accadde.
Pensò, Margherita: l’esuberanza dell’uomo, l’ego, be’ notevole, e quel fascino che lui sapeva di avere, minacciavano ogni giorno la sua integrità morale, seppur Rinaldo era quel che volete, ma apparteneva con stile a un’umanità autentica, pura, diremmo. Può il cuore essere sempre in sintonia con il più rigido pensiero?
Parisi sfilò i guanti da guida e li appoggiò sul bancone della concierge. Le valigie stavano transitando verso l’ascensore, uno dei primi della città, diavoleria che l’Hotel de la Ville esibiva con un certo orgoglio.
«Signor Conte, il viaggio è stato piacevole?», gli chiese Arturo.
«Come sempre, mio caro. Ah senta, la signorina Elena dovrebbe arrivare a momenti. La faccia accomodare in salone e sia lesto nell’avvertirmi del suo arrivo».
«Certamente, signor Conte».
Parisi seguì il suo bagaglio e salì nella solita 308.
La ragazza della Società arrivò poco dopo e, come ordinato, fu accompagnata nel salone. Rinaldo la raggiunse. I due si abbracciarono senza eccessi, il resto magari dopo, nella solita 308. Dare nell’occhio comportava una serie di spiacevoli conseguenze.
Rinaldo ed Elena decisero di guardarsi per un po’, fumando e bevendo, sprofondati nel velluto rosso delle poltrone, ignari che una gentildonna austriaca, la signorina Margherita von der Leyen baronessa Fisher, stava attraversando la hall, a una trentina di passi da loro.
L’impatto - inevitabile per la vicinanza degli attori di questo atto unico degli equivoci, ma non troppo - avvenne con l’inevitabilità dello stesso caso, a volte benigno, altre no. Nessuno scivolò nella più bieca tragedia da palcoscenico, gente con la schiena dritta, quei due, e nulla al mondo avrebbe potuto costringere un Parisi e tanto meno una Fisher a prendersi a mal parole davanti a una platea di un certo stile, qual era la piazza d’armi d’accoglienza dell’Hotel de la Ville.
Rinaldo lasciò indietro una Elena spaventata - perché la ragazza comprese al volo chi fosse la maestosa dama di lusso avvolta - e raggiunse una Margherita imperturbabile, nemmeno fosse lei, in quell’attimo, dentro un tornado di sensazioni imbarazzanti, ma una controfigura.
Rinaldo la prese sottobraccio e lei lasciò fare.
«Benvenuta a Trieste, tesoro, una sorpresa magnifica», disse il conte con una naturalezza invidiabile, che fu a un niente dallo svanire alla risposta di lei: «Immagino la sorpresa, Rinaldo, e la gentile dama la lasciamo laggiù tutta sola?».
La coppia si appartò in una saletta riservata. Dopo qualche ora i duellanti se ne uscirono con addosso l’intaccato aplomb col quale erano entrati. Va da sè che la vita è una scelta continua, può darsi essa stessa destino stabilito o forse determinata dal libero arbitrio, l’eterno fascino di un mistero irrisolvibile. Un cuore frammentato non è un buon consigliere, lo sappiamo bene. E la ragione diventa il tuo unico e salvifico spuntone di roccia. Rinaldo e Margherita si sposarono il tredici novembre 1911, perché così era stabilito da un complesso sistema di economia sentimentale e fine della storia. Rinaldo amava Margherita, non c’è dubbio alcuno, però Elena, per quel breve tempo, l’aveva fatto vibrare, eccome se lui vibrò d’amore. Si possono amare due donne con la stessa intensità? Oh Dio, sì, ma una va sempre sacrificata.
Margherita morì nel 1927, lasciando un figlio al suo Rinaldo. Ed Elena, vedova pure lei, in un pomeriggio del marzo 1930 si presentò elegante e decisa sul portone d’ingresso di Palazzo Parisi. Scrisse Galsworthy, drammaturgo inglese: «La vita sceglie la musica, noi come ballarla».—
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