Il blu di Prussia, dal ’700 ai nazisti un’arma di distruzione di massa
Quali sono i limiti della nostra comprensione del mondo? Della scienza stessa? C'è forse stato un momento, nel XX Secolo, in cui l'umanità ha perso e poi ritrovato la capacità di capire il mondo? Sono questi alcuni quesiti posti da un libro strano e bellissimo, un mix di fatti reali e finzione, divenuto nel giro di pochi mesi un caso letterario mondiale. Stiamo parlando di “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” ora uscito in Italia per Adelphi (traduzione di Lisa Topi, pp. 180, euro 18) di Benjamín Labatut. Giovane scrittore cileno, classe 1980, nato in Olanda e cresciuto a Buenos Aires e a Lima, Labatut ora vive e lavora a Santiago de Chile. Questo è il suo terzo romanzo e segue i pluripremiati “La Antartica ampieza aquí” (2013) e “Después de la luz” (2016).
Nel libro, lo spunto iniziale per una riflessione sul formidabile e terribile potere delle scoperte scientifiche e sulla sottile linea che divide il genio dalla follia è offerto da una colta ed eccentrica digressione sul blu di Prussia. Fu il primo colore creato sinteticamente e venne scoperto per caso nel '700 da Johann K. Dippel, un eretico che il filoso Emmanuel Swedenborg aveva paragonato a “un vile demonio”. Sempre un caso portò alla scoperta del cianuro. Fu nel 1782, quando il chimico Carl W. Scheele “rimestò un recipiente di blu di Prussia con un cucchiaio su cui vi erano residui di acido solforico, – racconta Labatut – creando il veleno più importante dell'epoca moderna. Battezzò il nuovo composto 'acido prussico', che usò per creare un nuovo colore sintetico: un verde smeraldo altamente tossico a base di arsenico, che venne usato per un certo tempo per colorare giocattoli e dolciumi. Con quella tinta Napoleone fece dipingere la carta da parati della sua camera da letto a Sant'Elena. Le tossine contenute nella vernice, scrive Labatut “potrebbero esser state la causa del cancro che gli scavò nello stomaco un buco della dimensione di una pallina da tennis”. Naturalmente, anche i servitori di Napoleone subirono gli effetti letali dell'arsenico. La nefasta carriera del blu di Prussia era però solo agli inizi. Attorno al 1914 il chimico Fritz Haber, all'epoca al servizio del Kaiser Guglielmo II, inventò la prima arma di distruzione di massa: erano le bombe a gas cloro che contenevano cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia. Sperimentate per la prima volta nella battaglia di Ypres, il 22 aprile del 1915, fecero 40.000 morti in 20 giorni. Lo scienziato non si rammaricò mai della sua invenzione, anzi la perfezionò e ne ottenne il pesticida Zyklon, usato poi dai nazisti nella versione Zyklon B per le camere a gas dove venivano uccisi gli ebrei prima di finire nei forni crematori. E fu il cianuro a essere usato da centinaia di gerarchi nazisti per togliersi la vita al crollo del Terzo Reich.
Con uno stile evocativo e visionario, che ricorda molto W. G. Sebald e Roberto Bolaño, l'excursus tra i grandi momenti epifanici della scienza che rivoluzionarono la comprensione del mondo prosegue con le storie dell'astrofisico tedesco Karl Schwarzschild, scopritore dei buchi neri, del matematico francese Alexander Grothendieck e del matematico giapponese Shinichi Mochizuki, pionieri della “geometria inter-universale” e si chiude col racconto delle tormentate esistenze dei fisici Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger, i cui nomi sono legati alla scoperta della meccanica quantistica. Le vicende di questi due geni sono anche al centro del best-seller “Helgoland” di Carlo Rovelli (Adelphi), ma Benjamín Labatut le propone in termini molto romanzeschi e accattivanti, è infatti convinto che per il lettore comune la fiction possa aiutare a comprendere questioni scientifiche complesse, perché – come ha dichiarato - “dove non si arriva con la matematica, si può arrivare con l'estetica”. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo