I ritratti di Giuseppe Held, il fotografo dimenticato della gente di Trieste

Ritrovato in un vecchio baule l’archivio del professionista titolare per anni di uno studio

in via Battisti. Il nipote Giuseppe Matschnig: «Era un maestro artigiano dell’immagine»

Claudio Ernè

TRIESTE. Ha aperto un vecchio baule da decenni dimenticato in soffitta e vi ha trovato assieme a un’enorme macchina fotografica a soffietto e a un piccolo numero di ritratti su lastra, un importante segmento della vita nonno fotografo, scomparso da mezzo secolo. Si chiamava Giuseppe Held e finora non compariva nelle frammentarie pagine della storia della fotografia triestina.

Nemmeno i più anziani fotografi di Trieste ricordano il nome di questo professionista nato nel 1891 e scomparso nel 1978 forse perché Giuseppe Held non era mai balzato agli onori della cronaca come fotografo d’attualità o proprietario di uno studio alla moda.

Il non possedere queste caratteristiche ha fatto si che la memoria della sua attività si perdesse nel tempo come accade a tanti tranquilli fotografi rionali: il suo studio non era visibile dai passanti perché era posto al primo piano dello stabile posto al numero 87 di Viale XX Settembre, nell’appartamento che aveva in affitto. «Non avrei mai pensato - afferma il nipote Giuseppe Matschnig, storiografo e scrittore, l’autore della scoperta - di divenire il suo biografo; abitavo da ragazzo in casa sua e ricordo molti dettagli e situazioni…».

«Lo studio - continua Giuseppe Matschnig - era arredato con diffusori e riflettori orientabili, disegnati da lui. Fornivano una luce potente. Al centro della stanza troneggiava la voluminosa fotocamera a soffietto posta sul treppiede».

Assieme a Pino Held, ricorda ancora il nipote, lavorava la figlia, specializzata nel ritocco dei negativi. Eliminava dalle lastre con la punta di una morbida matita di grafite gli inestetismi dai volti che poi la stampa su carta non avrebbe rilevato. Alla fine il cliente si trovava tra le mani la foto in bianco e nero in cui la sua immagine era ingentilita, svecchiata, molto simile all’idea che la persona fotografata aveva di se quando non si guardava allo specchio. E il cliente era soddisfatto di quanto il fotografo aveva fatto, fermando, anzi retrocedendo il tempo.

«Il lavoro negli anni ‘50 non mancava - spiega Matschnig -: all’epoca gli studi fotografici non erano numerosi e la necessità di immagini da fissare sulle carte di identità, passaporti e lasciapassare, era notevole. Altro lavoro veniva dai “dilettanti” che portavano i loro rullini in bianco e nero a sviluppare e stampare».

Lo studio era frequentato dai molti fotografi di Trieste. «Ricordo da ragazzino - racconta il nipote - di aver visto Ugo Borsatti, Adriano de Rota, Mario Magajna e anche, Mottola, Segulin, Ukovich, Sauli. Venivano a portargli i “lavori“ che avevano difficoltà a trattare nel loro studio perché all’arte fotografica spesso doveva essere affiancata quella del disegno a mano libera». In molti casi le foto su cui Pino Held interveniva, ritraevano mariti, figli, fratelli caduti in guerra che madri, sorelle, mogli volevano affiancare alla propria immagine in una foto-ricordo unica. «Il problema - dice Matschnig - era rappresentato dal fatto che spesso le stampe fotografiche dei caduti fornite dai loro parenti erano rovinate, a volte anche con alcune parti del volto o del busto mancanti». Era qui che entrava in ballo Pino Held che si dedicava alle “riproduzioni”. Era una lunga operazione di “posa” con fusione dei soggetti delle foto che, rinate alla fine come unico ritratto, venivano poi rifinite a mano libera aggiungendo i dettagli mancanti.

«Ricordo - racconta Matschnig - mio nonno al lavoro seduto per ore davanti alla finestra o in piedi con la “flaida” (grembiule) scura davanti al “cavalletto”, con la foto affissa su una tavola da disegno e la mano con la matita appoggiata ad una canna messa di traverso come i vecchi pittori». A volte il cliente voleva la foto colorata a mano, perché all’epoca le foto a colori non erano ancora di casa a Trieste. Le foto allora prendevano vita grazie al sapiente uso di gessetti, pennelli e matite a colori. Quando il collega veniva a ritirare la foto Pino Held era un po' sulle spine, curioso di sentire se avrebbe ricevuto le lodi per il suo lavoro. Ma le ore impiegate e la perizia che solo lui aveva, venivano spesso scordate. «La cifra richiesta - spiega il nipote - era inadeguata per ciò che aveva fatto; non si rendeva conto che il collega ne avrebbe ricavato una somma ben maggiore, ricevendo dal cliente lodi e ringraziamenti che non gli competevano». Pino Held in effetti era quasi incapace di vendere le sue capacità. Spesso i lavori gli erano commissionati dallo studio Ceretti di Corso Italia, già atelier di fiducia del duca d’Aosta. Quando l’automobile guidata dalla signora Ceretti, una lussuosa decapottabile color argento, arrivava in Viale XX Settembre 87 e veniva posteggiata sotto casa nostra per consegnare i “lavori“ da completare con il disegno o col colore, era una festa per i ragazzini che giocavano in strada, felici di vedere e toccare un’automobile allora da sogno. Pino Held era anche “maestro” degli aspiranti fotografi a cui insegnava segreti, trucchi, antiche tecniche. Ma il periodo “buono” non durò a lungo. Le novità tecniche emarginarono negli anni ’60 tanti fotografi. L’avvento della pellicola a colori fu un duro colpo e lui si ridusse a diventare un punto di consegna dei rullini e di ritiro delle foto a colori stampate fuori Trieste. Così molti vecchi clienti presero altre strade. Così la sua attività finì amaramente, in solitudine e indigenza. «L’ultima magra soddisfazione - conclude Matschnig - nel 1975 a una festa alla Birreria Dreher poco prima che fosse chiusa: era il decano dei fotografi e i colleghi non poterono fare a meno di donargli una targa d’alluminio dorato con la dedica: “A Pino Held artigiano esemplare“. Cinque parole per riassumere una vita».

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