I paesaggi ritrovati di Wolf Ferrari fra spettri e misteri

Una mostra che ha il valore della riscoperta; un percorso assolutamente inedito che ha per tema unicamente il paesaggio. Sono queste le caratteristiche di “Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio”, l’esposizione da poco inaugurata a Palazzo Sarcinelli a Conegliano.
Curata da Giandomenico Romanelli con Franca Lugato, riunisce 70 opere tra dipinti, acquarelli, pannelli decorativi, vetrate, studi per cartoline, tutte provenienti da collezioni private, gallerie, dimore di appassionati e intenditori. Un nucleo significativo giunge dalla Collezione Coin, che a suo tempo ha salvato un patrimonio altrimenti destinato alla dispersione grazie a un’illuminata acquisizione.
Articolata in sette sezioni la mostra ripercorre l’intera produzione dell’artista che ha saputo fare proprie le conquiste della modernità traducendole secondo la sua sensibilità e il suo amore per il paesaggio: un sentimento autentico, profondo, intimamente religioso. Scrisse infatti lo stesso autore: “Credo di esser rimasto in una sola cosa tradizionale: nell’amore che devono aver provato Beato Angelico, Botticelli, Ghirlandaio, nel dipingere le loro Madonne, con rispetto e con religione, con quella stessa religione che io sento quando mi permetto di dichiarare il mio amore al Paesaggio”.
Figlio di August Wolf, pittore di origine tedesca, e dell’italiana Emilia Ferrari, Teodoro nasce a Venezia nel 1878. Iscritto Accademia di Belle Arti, è allievo di Gugliemo Ciardi, Pietro Fragiacomo e Millo Bortoluzzi. Nel 1896 decide di recarsi a Monaco di Baviera entrando così in contatto con il gruppo di artisti denominato Die Scholle (la zolla), vicino ai gruppi secessionisti e allo Jugendstil. Nella città tedesca ha inoltre modo di confrontarsi con i principali e più innovativi linguaggi della pittura contemporanea; in particolare con la pittura di matrice sintetista, caratterizzata da vivaci cromie stese in campiture piatte secondo lo stile di Gauguin. Ma a Monaco viene altresì colpito dall’intensità dei paesaggi di un tardo-romantico quale Arnold Böcklin, l’autore della celebre “Isola dei morti” che molti allievi e seguaci copiarono e reinterpretarono. Il percorso della mostra a Palazzo Sarcinelli prende il via proprio dall’immagine cupa e misteriosa dell’isola riprodotta fedelmente da un altro artista tedesco, Otto Vermehren, e dalla sua rivisitazione in chiave più personale e “sintetista” ad opera di Wolf Ferrari.
Seguono i paesaggi ispirati a Lüneburger Heide, la brughiera della Bassa Sassonia vicino a Hannover, dove il pittore amava tornare per dipingere la fioritura delle eriche, le nubi dense, fredde, grigie, il vento che soffia forte e continuo. Gli insegnamenti dei maestri veneziani ancora legati alla tradizione dell’Ottocento, lasciano il passo a suggestioni postimpressioniste dove i colori e le pennellate esprimono tutta l’emozione di un’immersione totale nella natura.
Ma alla poesia e alla forza della natura si contrappongono i pensieri e la storia dell’uomo. A opere puramente paesaggistiche si alternano dipinti dalla potente valenza simbolica come ad esempio le due versioni del “Paradiso perduto” o alcuni paesaggi notturni dove le rocce come le nubi o le ombre, trasmettono un senso di mistero e di inquietudine tali da poter ricordare le opere di Munch.
Più decorativi, più armonicamente colorati, i dipinti legati all’esperienza di Ca’ Pesaro, la galleria che a Venezia, tra il 1908 e il 1920, sotto la guida di Nino Barbantini offrì ad artisti diversi per stile e poetica la possibilità di esprimersi liberamente e di esporre le loro opere, in alternativa alla Biennale. Ugo Valeri e Gino Rossi sono stati tra questi e in mostra sono presenti con i loro paesaggi che risentono dell’espressionismo tedesco e della lezione di Gauguin.
Nel 1910 Wolf Ferrari espose a Ca’ Pesaro ben cinquantadue opere, in una personale compresa in due sale da lui allestite e decorate con il gusto secessionista viennese, riproposta quindi nel ’13 anche a Stoccolma e a Hannover. Per lui la frequentazione della galleria veneziana, dove continuò a esporre fino al 1939 pressoché ininterrottamente, rappresentò l’occasione di confrontarsi con vari artisti ma soprattutto la possibilità di sperimentare nuovi linguaggi, nuove tecniche ispirate al movimento Arts & Crafts e alle secessioni. A questo proposito a Conegliano vengono proposti accanto agli oli su tela anche un paravento a quattro ante con uno sfondo collinare che si tinge di rosso acceso e tre pannelli in vetro con “Paesaggio, Casa, Betulle” di intonazione quasi fiabesca.
Proprio le betulle insieme ai salici ritornano nella serie di dipinti che più risentono dell’influenza klimtiana ma che al tempo stesso meglio riassumono le note caratteristiche dell’autore, in una poesia di luci e colori preziosi, talvolta persino magici.
“Il cipresso e le rose”, “Betulle”, “Betulle e glicini”, sono composizioni in cui, osserva Romanelli, “grandi masse di verde punteggiate di fiori danno vita a una sorta di basso continuo cromatico da cui si ergono esili fusti che sembrano legare la terra alla volta celeste o connettere, come liane pendenti, la vastità di cieli nuvolosi al lievitare delle colline”.
Anche i giochi dei riflessi sulla superficie dell’acqua riescono a suggerire all’autore visioni assolutamente liriche, cariche di vibrazioni cromatiche ed emotive.
Nel 1920 Teodoro abbandona la città lagunare e il suo lo studio in campo San Barnaba per trasferirsi nell’entroterra a San Zenone degli Ezzelini, nel cuore della Marca trevigiana. Negli anni ’20 e ’30 partecipa alle Biennali di Venezia, alle rassegne della Bevilacqua La Masa e ad altre importanti mostre a livello nazionale, come la Promotrice di Torino del 1922 e la Biennale romana del 1923 e del 1925.
L’ultima fase dell’artista è rappresentata da una serie di opere che ritraggono le colline asolane tra le alture del Grappa e la valle del Piave, o la stessa località di San Zenone degli Ezzelini: la pennellata diviene più ariosa, leggera, lo stile vagamente impressionista. Se infatti in “Sera di settembre” permane l’intensità cromatica del primo periodo capace di creare ancora magici accordi tra colori e luci, tra i blu e i gialli, in opere come “Cipressi sul Monte della Madonna verso la Val Sugana” la visione si distende e si schiarisce sullo sfondo di un cielo azzurro e finalmente sereno.
“Così io ho capito la Pittura di paesaggio - ebbe allora a scrivere Wolf Ferrari - dopo trent’anni di prove e di esperimenti, rinunciando di farla mia con i miei pennelli e colori, fissando il massimo che essa permette in quel pochissimo tempo che mi è dato, poiché essa è assai mutevole e non vuol essere annoiata”.
La mostra, aperta fino al 24 giugno, offre al visitatore la possibilità di immergersi totalmente nell’atmosfera di inizio ’900 anche attraverso l’ascolto, lungo le sale di Palazzo Sarcinelli, delle musiche del fratello di Teodoro, Ermanno, compositore formatosi a Monaco, autore di musica operistica, sinfonica e da camera.
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