I matti danno spettacolo, così il manicomio di Basaglia è finito al cinema e in tivù

Un saggio della docente Marina Guglielmi esplora la “macchina narrativa” sulla legge 180: dai libri dello psichiatra, al documentario di Zavoli, ai film di Giordana e Virzì al teatro di Celestini 

TRIESTE Se 40 anni fa la legge Basaglia è divenuta realtà, con l’apertura degli spazi chiusi degli ospedali psichiatrici, molto si deve a quella straordinaria operazione narrativa che lo psichiatra veneziano inaugurò a Gorizia e sviluppò a Trieste. Fin dalla direzione del nosocomio goriziano, nei primi anni Sessanta, Franco Basaglia si adoperò infatti per dare il via a un meccanismo narrativo che avesse per fulcro i luoghi manicomiali e i loro inquilini, sottraendo così gli uni e gli altri all’invisibilità. Non lo fece soltanto attraverso i suoi celebri libri, che pure furono dei bestseller: “L’istituzione negata”, del 1968, vendette più di cinquantamila copie in cinque anni e fu tradotto in moltissime lingue. Basaglia sapeva che per aprire i cancelli degli ospedali psichiatrici era indispensabile mostrare e narrare quanto accadeva al loro interno. Perciò a Trieste si circondò di scrittori, giornalisti, artisti, fotografi, registi, filosofi, innescando intorno a sé un processo narrativo irreversibile. Fu a Trieste che nacque anche il più celebre “dispositivo narrativo” della sfida basagliana: quel cavallo blu di cartapesta che chiamarono Marco e che fu il primo ad “abbattere i muri”, sfilando per la città assieme a Basaglia e a un corteo di circa quattrocento reclusi il 25 febbraio del 1973.

La grande macchina

Si focalizza proprio sull’analisi della “modalità di narrazione manicomiale basagliana” dall’inedito punto di vista dei cultural studies il volume di Marina Guglielmi “Raccontare il manicomio - La macchina narrativa di Basaglia fra parole e immagini” (Franco Cesati Editore, 2018, pagg. 179, 28 euro). «L’aver scardinato il consueto paradigma manicomiale usando prima di tutto l’immagine e la narrazione è stato il gesto fondato che ha permesso a Basaglia di realizzare i suoi progetti - sostiene l’autrice -. Senza la grande macchina narrativa da lui avviata forse gli effetti che si sono avuti sulla psichiatria italiana e sullo stato sociale di tutti i ricoverati non avrebbero ricevuto la medesima risposta».

L’effetto centripeto prodotto dall’attività di Basaglia, l’eco ai suoi discorsi, si è insinuata non solo nelle dissertazioni degli addetti ai lavori, ma anche nei mezzi di comunicazione di massa: nell’arte, nella fotografia, nel teatro, nella letteratura, nel cinema. È divenuta una macchina narrativa transmediale inarrestabile, che ancora oggi continua a produrre frutti. Di questa sterminata produzione narrativa manicomiale Guglielmi analizza le principali produzioni.

Tra queste spiccano il documentario “I giardini di Abele”, realizzato da Sergio Zavoli e trasmesso per la prima volta il 3 gennaio del 1969 sul primo canale della televisione nazionale, e il fotolibro “Morire di classe” di Gianni Berengo Gardin e Carla Celati, uscito nel maggio dello stesso anno. Con il suo documentario, che si stima sia stato visto da circa dieci milioni di persone, Zavoli propose un prodotto altamente fruibile e leggibile, che portò nelle case degli italiani un mondo, quello dei manicomi, che quasi nessuno ancora conosceva. Televisione e cinema da allora divennero mezzi privilegiati per il messaggio basagliano.

Se ne parla nell’ultimo capitolo del libro, che propone un excursus tra le opere più recenti che hanno riportato i manicomi sullo schermo: dalla mini serie televisiva “La meglio gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana, che nel trattare il tema psichiatrico si pone in un ideale continuum narrativo con l’operazione realizzata da Zavoli quasi cinquant’anni prima, al film “La pazza gioia” (2016), che coniuga la finzione filmica con la testimonianza basata su dati reali e per cui il regista, Paolo Virzì, si è avvalso della consulenza di numerosi psichiatri, fra cui lo storico collaboratore di Basaglia, Peppe Dell’Acqua.

Lo stesso Dell’Acqua è salito in palcoscenico al Politeama Rossetti, nel novembre scorso, insieme a Massimo Cirri per interpretare “(Tra parentesi) la vera storia di un’impensabile liberazione”, scritto da loro e con la regia di Erika Rossi: una settimana di repliche sold out e già si pensa a una ripresa in primavera. Ma Guglielmi ricorda anche il film “C’era una volta la città dei matti” (2010) di Marco Turco, biopic su Basaglia interpretato da un bravissimo Fabrizio Gifuni.

Pazzo ma non solo

In questo film dall’esplicito valore testimoniale il regista dedica una particolare attenzione alla resa della modalità relazionale che lo psichiatra intrattiene con il personale e i ricoverati, nella consapevolezza, sottolinea l’autrice, che si tratta del fondamento del nuovo approccio psichiatrico umanistico alla malattia. Negli stessi anni Guglielmi segnala anche il composito progetto culturale realizzato da Ascanio Celestini con il suo “Pecora nera. Elogio del manicomio elettrico”. Nato nel 2005 come libro raccolta di testimonianze e serie d’interviste realizzate nei manicomi d’Italia, prende forma prima come spettacolo teatrale e radiofonico e poi, nel 2010, come opera cinematografica. Anche nel film di Celestini il messaggio di Basaglia risuona forte e chiaro: la malattia mentale non è un abito che ricopre la persona e ne assorbe tutte le peculiarità, ma una parte del sé individuale. Dice Celestini nel libro “Incroci di sguardi. Conversazioni su matti, precari, anarchici e altre pecore nere”: «Uno che sente le voci può essere anche un grande enologo. Allora chi è quello? È uno che fa vino straordinario o è un matto? Nessuno è solamente un matto». —
 

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