I giorni bruciati di James Salter dai cieli di guerra alla salvezza dell’arte

Come un romanzo l’autobiografa dell’autore di “Un gioco e un passatempo” e “Una perfetta felicità”



«I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, formano un coro, l’inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l’onore, l’amore e quel poco che il cuore conosce». James Salter (1925-2015), pubblicato in Italia da Guanda che ne ha fatto conoscere i romanzi quali “Per la gloria”, “Un gioco e un passatempo”, “Una perfetta felicità”, è uno di quegli scrittori d’azione capaci di attingere da una vita presa a morsi il senso ultimo delle cose, e di distillarlo in pagine che inchiodano il lettore. “Bruciare i giorni” (Guanda, pagg. 416, euro 20,00) è la sua autobiografia, il lungo racconto non cronologicamente ordinato di un’esistenza divisa in due parti, com’è la scansione del libro: l’infanzia e la giovinezza trascorsa prima nell’accademia militare di West Point e poi sugli apparecchi dell’aeronautica militare come pilota di caccia, e la maturità vissuta da scrittore e da sceneggiatore nel mondo del cinema. Un’autobiografia che ha il passo e l’intreccio dei suoi romanzi, con una folla di personaggi che spiccano vitali e autentici dalla pagina, si tratti dei commilitoni di tante avventure e battaglie (nei cieli della Corea contro i Mig sovietici), o di altri scrittori, attori, agenti letterari, produttori e registi, dall’amico Irvin Shaw, a Kerouac, Zavattini, Kenneth Littauer e molti altri. Senza contare le donne, i tanti amori di un’esistenza spesa senza risparmio, narrati con una sincerità a volte disarmante. Come la lunga relazione con Paula, la moglie del suo migliore amico, un capitano dell’Air Force, relazione consumata all’età di ventidue anni in un tempo in cui «ero magnificamente impreparato alla vita».

Chi già conosce i lavori di Salter ritroverà qui la potenza del racconto degli anni in aeronautica: «Com’è facile da ricordare quel mondo, la zaffata dello scarico dei jet, oleoso e scuro, nell’aria mattutina mentre raggiungi a piedi la zona dove gli aerei sono parcheggiati nella nebbia». Salter non ha mai rinnegato - anzi - la parte di sé cresciuta inseguendo la gloria a partire da quella «scuola dura, una fucina», che era stata West Point. Poi la scuola di volo, i giorni dell’immediato dopoguerra passati nelle basi delle Hawaii («ne sento di nuovo il sapore: i balli sotto le palme, i drink sul lanai, gli incontri di boxe, l’ozio, gli abiti estivi»), per finire - nei primi anni Cinquanta - con i duelli aerei contro i Mig: «Io avevo paura mentre salivamo nell’aria fredda, gli aerei che beccheggiavano leggermente. Forse fu il giorno in cui vidi il mio primo Mig, argenteo, passare sopra di noi, completo di tutti i suoi strani dettagli, silenzioso come uno squalo. (...) Ricordo che mi sentivo solo e indifeso. Mi bruciava la gola a ogni respiro». Una stagione costellata di emozioni e passioni, trascorsa «armato e nervoso», dove a prevalere erano «i luoghi lontani, il cameratismo, l’idealismo, la giovinezza».

E poi la seconda stagione, inseguendo un’altra insopprimibile pulsione: scrivere. «È lo scrittore che definisce il mondo, e il suo nome ne diventa parte», dice Salter, che diventa amico di Irwin Shaw: «La verità era che all’inizio vide in me l’arroganza dell’insuccesso. Avevo scritto due libri, e la mia forza consisteva nel non aver raggiunto nulla». Dalle atmosfere rarefatte dei cieli a quelle rutilanti ed effimere del mondo editoriale di quello cinematografico: «le luci danzanti sull’acqua scura come nelle vecchie stampe, il suono di voci, risate, musica, tutto fioco, allettante, lontano». Giorni bruciati con intensità quelli di Salter, consegnati al racconto con tutta la loro gamma di emozioni ed amori. E dolori. Tutti tranne uno, quello per la morte della figlia, l’unico talmente indicibile da non poter nemmeno essere consegnato all’arte, che altro non è se non «la vita che viene fermata, salvata dal tempo». —

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