I fondali raccontano la storia dell’Adriatico Relitti e opere d’arte

Il 17 dicembre sbarcherà al Salone degli Incanti  una curata esposizione sull’archeologia subacquea
Il nostro mare Adriatico è come uno scrigno, custode di storie millenarie che aspettano soltanto d’essere riportate in superficie. «Ci sono più relitti sul fondo del mare rispetto alle navi che lo solcano», diceva lo scrittore e saggista croato bosniaco Predrag Matvejevic, grande cantore delle civiltà del Mediterraneo e degli incroci tra i popoli che s’affacciavano sulle sue acque. E’ispirata proprio alle sue parole e alla sua concezione del Mediterraneo come “mare che unisce” la straordinaria mostra che aprirà i battenti il 17 dicembre al Salone degli Incanti, trasformandolo per cinque mesi in un grande mare, in cui il pubblico potrà idealmente immergersi per scoprire un’infinità di storie che per lungo tempo, a volte secoli, a volte millenni, sono rimaste celate sotto le acque. Storie di pace e di guerra, di scambi e traffici commerciali, di incroci di genti e di merci, perfino storie di pirati.


A raccontarle sarà la mostra “Nel mare dell’intimità - L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico”, che per la prima volta, con un’esposizione di 2000 metri quadri, offrirà al pubblico in una visione d’insieme relitti, opere d’arte e oggetti della vita quotidiana, merci destinate alla vendita e attrezzature di bordo letteralmente ripescate dai fondali del nostro mare. Saranno circa un migliaio i reperti in mostra, ciascuno con la propria storia, provenienti dai numerosi giacimenti sommersi e prestati per l’occasione da musei italiani, croati, sloveni e montenegrini.


A collaborare a questa mostra, che è organizzata dal Servizio di catalogazione, formazione e ricerca dell’Erpac (Ente Regionale per il Patrimonio Culturale Fvg e dall’assessorato alla Cultura del Comune di Trieste), sono infatti oltre 60 istituzioni culturali italiane e internazionali, tra le quali la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio e il Polo Museale regionale, con il coinvolgimento di 50 studiosi e una fortissima presenza di reperti provenienti dalla Croazia, che grazie anche a un accordo bilaterale fra i due Ministeri della Cultura ha messo a disposizione quasi la metà dei pezzi in esposizione, provenienti da 17 diversi musei. Come simbolo dell’esposizione è stato scelto proprio un reperto croato: l’Apoxyomenos o “Atleta di Lussino”, antica opera scultorea greca in bronzo, databile tra il I e il II secolo dopo Cristo, di cui a Trieste verrà esposta una copia perfetta.


L'ex Pescheria di Trieste, grazie all’allestimento curato dall’architetto Giovanni Panizon, si trasformerà in un paesaggio d’acqua, un fondale sommerso che permetterà di leggere in maniera più esaustiva l’intensità degli scambi culturali e dei traffici commerciali, la specificità della costruzione navale antica, la ricchezza delle infrastrutture e il dinamismo dei paesaggi costieri, le storie degli uomini che hanno attraversato questo mare intimo. Ad accogliere il visitatore all’ingresso della mostra sarà un’installazione che simula la forma e le correnti dell’Adriatico, permettendo una visione simultanea di ben 22 diversi modelli d’imbarcazioni che nel corso dei secoli hanno solcato il nostro mare. Lasciatosi alle spalle il mare, il pubblico raggiungerà uno spazio espositivo che riproduce in negativo lo scafo di una nave antica, nel quale saranno posizionati i reperti archeologici marini. Saranno dieci le sezioni della mostra, ciascuna corrispondente a un tema: Lo spazio Adriatico, I porti e gli approdi, Le navi, Le merci, Gli uomini, I lavori del mare, La guerra sul mare, Il mare e il sacro, L’Adriatico delle migrazioni e La ricerca sotto il mare.


“Nel mare dell’intimità” si pone l’ambizioso obiettivo di raccontare la storia dell’Adriatico dall’antichità ai nostri giorni con gli occhi dell’archeologia subacquea. «E’ una disciplina poco nota al grande pubblico, che non gode della giusta attenzione - afferma la curatrice della mostra, l’archeologa Rita Auriemma, direttrice del Servizio catalogazione, formazione e ricerca dell’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia -. Con questa mostra vogliamo far capire alla gente cosa significa fare archeologia subacquea e spiegare il valore di una ricerca in gran parte sommersa e sotterranea che annoda legami antichissimi». L’esposizione è frutto di un intenso e coordinato lavoro di ricerca, reso possibile dai contatti e dalle relazioni tra ricercatori dei diversi Paesi che s’affacciano sull’Adriatico. E lungi dal rappresentare un punto d’arrivo, mira piuttosto a incoraggiare una riflessione legata alla tutela e alla ricerca dei beni sommersi e a fornire un contributo in tal senso, offrendosi come trampolino di lancio per nuove ricerche e progetti.


E’ questo il caso, per esempio, della Iulia Felix, imbarcazione romana del III secolo ritrovata nel 1987 a 16 metri di profondità sui fondali marini al largo di Grado. L'imbarcazione, lunga 18 e larga 5-6 metri, è stata rinvenuta intatta con il suo carico di 560 anfore. In mostra a Trieste ci sarà la riproduzione della sezione trasversale della nave di Grado, che è stata progettata dagli archeologi e dal maestro d’ascia Gilberto Penzo, che hanno studiato lo scafo e il carico di questo relitto. Questa preziosa ricostruzione a grandezza reale finita la mostra costituirà il primo nucleo espositivo del Museo archeologico di Grado. Nella sezione saranno stivate le anfore originali del carico, che contenevano prodotti alimentari, principalmente pesce e conserve ittiche, e una riproduzione della botte che racchiudeva i frammenti di vasellame vitreo trasportati per essere rifusi, un sistema di riciclaggio già praticato nell’antichità perché più economico rispetto alla produzione di vetro ex novo.


Trasportava sempre vetro, ma anche collane, candelabri, lampadari, campane di bronzo, lingotti di piombo, coloranti, bicchieri di cristallo e rotoli di seta preziosa la Gagliana Grossa, o relitto di Gnalić, una galea di mercato affondata in Croazia nel 1583 con un carico di lusso ed estremamente variegato, che spedito da Venezia avrebbe dovuto arrivare via mare al sultano ottomano Murad III. A quel tempo tra la Serenissima e l’Impero Ottomano era guerra aperta, ma nonostante le ostilità le due potenze continuavano a intrattenere rapporti commerciali. La nave, del peso di circa 720 tonnellate, fu fatta costruire a Venezia da Lazzaro Mocenigo, Benedetto da Lezze e Piero Basadonna e venne varata nel 1569. Caduta nelle mani degli Ottomani nel luglio del 1571 presso l'isola di Saseno (Albania), trascorse i successivi dieci anni al loro servizio, prima di venire acquistata, nel 1581 a Costantinopoli, dalla famiglia Gagliano. Per questa ragione, all’epoca del naufragio, la nave portava il nome di Gagliana Grossa.


A bloccarne la traversata e farla finire sul fondo del mare, a sud di Zara, fu una tempesta, facilitata dall’eccesso di carico. Ma i resti di questo naufragio, custoditi nei fondali marini e riportati alla luce dagli archeologi subacquei nel corso di diverse campagne condotte dal 1967 ai giorni nostri, oggi costituiscono una sorta di finestra sulla storia degli anni successivi alla Battaglia di Lepanto, che nel 1571 fermò il dominio turco nel Mediterraneo. Il carico della nave era composto da materiale eterogeneo di produzione artigianale, con molte merci di uso comune e con una particolare abbondanza di materiale vitreo, per un totale di più di 5500 oggetti. Una variegata selezione di questi reperti sarà esposta al Salone degli Incanti. Ogni pezzo in mostra racconterà una storia: per approfondirle una a una è stato realizzato un accurato catalogo.


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