“I figli di Bronstein” una trappola perfetta per i figli della Shoah

la recensione
La storia d'amore tra Hans e Martha si spegne quando l'incomprensione si frappone tra loro. Nasce da un segreto, spaventoso ed esecrabile, che Hans si rende conto di non essere in grado di condividere. Non ha le parole, non ha gli strumenti, e forse la conferma di non avere nemmeno l'interlocutore giusto, diviene lampante quando la fidanzata, come lui ebrea, accetta con leggerezza la parte in pratica di se stessa, in un film ambientato in epoca nazista, flirtando di fatto con la tragedia della Shoah.
Ogni cosa è al suo posto, ovvero esattamente là dove ci si aspetta debba stare nella trama - avvenimenti, riflessioni, pause - in "I figli di Bronstein" (Neri Pozza, pagg. 297, euro 15,50). Questo romanzo perfetto di Jurek Becker chiude quella che i critici considerano la sua trilogia iniziata con "Jakob il bugiardo" (1969), opera molto premiata e da cui vennero tratti anche due film, uno dei quali interpretato da Robin Williams, e "Il pugile" (1976).
Refrattario al facile consumo emotivo e sentimentale della Shoah, l'autore, che fu tra l'altro apprezzato sceneggiatore cinematografico, nato a Lodz, in Polonia nel 1937 e morto in una cittadina dello Schleswig-Holstein nel 1997, dichiara nel corso di un'intervista: "Tutte le volte che mi è stato chiesto della mia origine e della mia discendenza, ho risposto: 'I miei genitori erano ebrei'".
Risposta apparentemente sibillina e repulsiva, ma che trova giustificazione biografica nel fatto che lo scrittore, della sua prima infanzia nel ghetto, successivamente trascorsa nei lager di Ravensbruck e Sachsenhausen, ha perso, insieme alla madre morta di stenti, praticamente ogni ricordo che sfuma invece in una confusa nebulosa.
Per questo il suo alter ego Hans Bronstein prova ritrosia morale nella rappresentazione da palcoscenico, volgarizzata ad uso pubblico, di un grumo di dolore che per sua ammissione vive come una teoria, è privo di immagini ma possiede solo echi di voci.
Una rimozione coltivata dal padre nella vita reale dell'autore, che, una volta stabilitisi nel settore est di Berlino, trova per sé e per il figlio nuovi nomi, Max e Georg, e una fittizia identità tedesca. La lingua polacca va cancellata in quanto lingua degli antisemiti, lo yiddish parlato in casa è solo un cattivo tedesco da rimuovere, mentre la Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, gravitante in zona sovietica, cerca l'oblio del suo passato nazista nell'offrire ai sopravvissuti ai lager agevolazioni e status di "vittime del fascismo".
Tutti temi ripresi e rielaborati ne "I figli di Bronstein", uscito in Germania nel 1986, in Italia per la prima volta nel 2003 edito da Le Lettere.
All'apparenza opera costruita come uno scontro generazionale tra il padre Arno - che sa, non dimentica, non perdona, non ha fede nella giustizia tedesca dell'Est e dell'Ovest, e tace con protervia sul passato - e l'ostentata indolenza di Hans, giovane della seconda generazione - che come tanti coetanei non vuole più sentir parlare di guerra, di fascismo, di persecuzione in sfalsanti termini retorici, aderendo alla storia tedesco-orientale degli anni ’70. Eppure tutti quei silenzi, dall'una e dall'altra parte, li percepisce omertosi. Né Hans riesce a venire a capo delle proprie considerazioni morali, espresse da Becker sempre con asciuttezza, né lo può aiutare la sorella Elle, sua confidente ricoverata in un istituto psichiatrico, palesandole il segreto del padre che con altri ex-internati tengono segregato e torturano un uomo individuato essere stato sorvegliante di un lager.
Non c'è pagina della narrazione che contenga una frase sciatta, melensa, eccessiva, semmai è una trappola perfetta di denuncia dei risentimenti. a casetta di campagna che Hans e Martha avevano eletto a nido d'amore, per colpa del passato si è ribaltata nella sua tomba, divenendo il ricettacolo che racchiude antiche ma ancora vive sofferenze e parole inespresse tra il padre, che lo voleva preservare per rigenerarlo, e il figlio. Resteranno i sentimenti contraddittori di Hans per il padre e infine verso l'ex-aguzzino che, anche una volta liberato, continuerà a non capire. —
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