Ho buttato via il Bignami del primo incontro e sono venuto a cercarti
E se Ornella non fosse venuta? Il mio vademecum da Grand Amateur aveva qualche lacuna. E invece... Mi aveva colto di sorpresa, l’ennesima domanda che non avevo previsto
I protagonisti immaginati da Gianluca Chicconi
TRIESTE I turbamenti del non più giovane … Qualora ci fossero ancora i pantaloni corti, io mi sentivo come un bambino con i pantaloni corti, il cuore rovesciato nell’erba e i milioni di passi consumati lungo la pineta di Barcola, più dei porfidi di cui essa è lastricata.
Così, i pensieri e le suggestioni e i timori pavimentavano quel pomeriggio in cui ripetevo a memoria – scoglio per scoglio – domande e risposte di un ipotetico colloquio fino a comporre una lezione che avevo elaborato e che prefigurava uno spettro ampio di possibilità: tutte quelle che il genere Sapiens potesse esperire nell’ipotesi in cui un esemplare maschio incontra per il primo appuntamento un esemplare femmina e i pseudoferoni, gli intromaglioni, i qurditatoni (perché le sostanze che produce il corpo umano emozionato finiscono – comunque cavolo si chiamino – sempre in –oni oppure anche in –fine: endorfine, morfine, perfine, porcofine) sono tutti in agitazione e pompano come vigili del fuoco che dovessero spegnere l’incendio di Chicago del 1871.
Io ero l’esemplare maschio.
E il caso in oggetto, capitolo del Codice di Hammurabi tascabile che avevo redatto, sorta di Bignami del primo incontro, contemplava ogni opzione, appunto, largo come l’orizzonte che avevo davanti:
“Se saluta freddamente?” ponevo il caso guardando a sinistra le Rive con l’ordinata fila di palazzoni stile asburgico saldamente eretti prospicienti la lingua del mare
“Sfodero un sorriso tranquillo e sicuro come l’uomo che ha messo in conto un rifiuto e dunque è dispiaciuto ma controlla il proprio stato d’animo” mi rispondevo guardando dall’altro lato, verso il Castello di Miramare, bianco e sporgente, come a voler farsi notare (sperando, io, di non fare la fine del povero Massimiliano).
“Se invece saluta in modo effervescente, manifestando entusiasmo?” mi chiedevo guardando nuovamente a sinistra, con lo sguardo piombato sulle gru a becco del porto e che somigliano proprio a gigantesche gru con il lungo becco, la testa reclinata in avanti, su una sola zampa
“Sfodero un sorriso tranquillo e sicuro come l’uomo che è quasi certo del proprio successo e dunque è soddisfatto della conferma” mi ripetevo a memoria, guardando a destra, arrampicando lo sguardo fino su al formaggino
“Se è triste e arriva in silenzio e pensierosa, magari per problemisuoichevaacapire?” scoccava la domanda guardando a sinistra il fiordo che si insinuava oltre il Molo VII
“Sfodero un sorriso tranquillo e sicuro come l’uomo che ha messo in conto una variabile, un incidente di percorso che può far saltare i piani di un primo incontro e dunque è dispiaciuto ma controlla il proprio stato d’animo” mi rispondevo guardando per l’ennesima volta a destra indovinando le falesie bianche, oltre Grignano. Come si sarà comportato Rilke in un frangente come il mio? Avrà avuto un sussulto di cuore? Salivazione azzerata, sudorazione alle mani, piedi scivolosi nelle scarpe improvvisamente larghe, aureola all’ascella con esalazioni alla Cernobyl, la sillaba cadente senza rima al fondo di un verso sbagliato, a far saltare tutto il delicato equilibrio della metrica? …
Confesso che, prescindendo da Rilke, c’era qualcosa che non mi convinceva nelle mie risposte, qualcosa che sfumava in una incompletezza nella tassonomia (oltre 50 opzioni ma mi limito a elencarne tre), summa della classificazione scientifica che pescava da tante discipline, dalla sociologia comportamentale alla psicanalisi freudiana ultraortodossa.
Improvvisamente, dal centro della schiena in basso era risalita una vibrazione nervosa che si era fissata alla base della nuca in uno stringente torcicollo. Lo stesso che morde dopo aver guardato dalle tribune una interminabile partita di tennis.
Mi voltai inconsapevolmente in cerca di qualcosa, gli occhi incrociarono il faro della Vittoria, vigile con il suo occhio circolare scrutatore, imperturbabile come un dio senza radici, totemico nella sua inequivocabile forma fallica.
Una silenziosa presenza rassicurante.
Ripresi a camminare, visibilmente concentrato, e trasalii quando, passando davanti alla fontana luminosa improvvisamente si levò alto un getto d’acqua, preceduto da un inquietante gorgoglio sotterraneo che sembrava cominciare sotto i miei piedi. Mi sentii come la star piumata di quei poderosi musical americani di un tempo in cui al passaggio a passo veloce della sorridente coscialunga, getti d’acqua si levano in complessi giochi.
La metempsicosi in Ginger Rogers durò poco: in un secondo mi ridimensionai in un giovanissimo me stesso soggiogato dalla tensione di una possibile interrogazione. Detto-fatto:
“A- a- a-
b- b- b-
la professoressa scorreva sadicamente sul registro di classe l’elenco in ordine alfabetico degli alunni in un’atmosfera di apnea collettiva
c- c- c-
d- d- d- … d-
De Filippis”, sentenziò con serena crudeltà la professoressa chiamandomi alla cattedra, sbagliando per l’ennesima volta il cognome.
Ma perché tutti gli stati d’animo di carica emotiva devono ricondurre a momenti infelici dell’infanzia, dell’adolescenza? Mi chiedo se non sia un trito stratagemma letterario o se davvero la più piccola increspatura del carattere non sia modellata sulla conformazione ‘a cipolla’ che è la nostra crescita: ciò che siamo e saremo si sagoma sul nocciolo iniziale dei primi anni, a partire dalla placida, amniotica esperienza prenatale.
“E se arrivasse con determinazione ussara e, trascinandomi tra le altalene e le toilette a chiusura automatica ‘mi’ copulasse con incontenibile lussuria?”
Il dubbio mi arrivò dritto alla nuca come uno stiletto. Cavolo, questa non era una eventualità che avevo contemplato!
Ammetto, che guardassi Punta Salvore o le Alpi, lo zenit o le tomaie, stavolta era azzardato anche solo pensare di poter sfoderare “un sorriso tranquillo e sicuro come l’uomo che ha messo in conto…”. Qui c’era solo da subire e lasciarsi concupire. Ipotesi remota e stravagante.
La accantonai.
Ero stanco, stressato. Sedetti alla panchina davanti al baracchino di legno al centro della pinetina, quello dei presunti alternativi, eccezionalmente aperto in aprile. Il gestore, impegnato a pulire scrupolosamente arredi e bancone in vista della riapertura, per un lungo momento si fermò a fissarmi, incuriosito. Alzò le sopracciglia in tono interrogativo e riprese a strofinare.
Ornella non arrivava
“E se non fosse arrivata?”
Eh già, se non fosse arrivata? Il mio vademecum del Grand Amateur decisamente aveva qualche lacuna. Tuttavia,
argomentai, se non fosse venuta, il problema non si sarebbe posto: con sorriso sicuro o lacrime disperate, non avrei potuto far altro che tornarmene a casa.
Comunque, ero ancora troppo presto per questa eventualità: erano le 17.45 e l’appuntamento era fissato per le 18.30. Considerando che bighellonavo in pineta dalle 16.53 e che avevo superato i 15 anni d’età da un ventennio circa, pensai che ero giunto con un anticipo eccessivamente largo.
E invece…
“Sei già qui?”
Mi voltai. Ornella era lì in piedi, un cane dalle orecchie ciondoloni e lo sguardo annoiato al guinzaglio; mi guardava (Ornella, non il cane) con un sorriso che non seppi decifrare se di commiserazione o di appagata vanità. Mi aveva colto di sorpresa, tanto che la fissai senza particolare interesse, come se fosse stata una mia immaginazione per l’ennesima domanda che non avevo previsto.
“Ero qui, sì … in zona, ho pensato…”
Sorrise, divertita, qualcosa baluginò per un istante nei suoi occhi azzurri. Pensai che se ci fossi caduto dentro in quegli occhi chissà se sarei rimasto a galla…
“Hai pensato…?”
“Ho pensato … ero in zona…”.
Com’era la storia del sorriso sicuro…?
Mi resi conto che non era un ologramma o una mia immaginazione ma era proprio Ornella, in piedi affianco a me, la mia testa all’altezza del suo ombelico, potevo indovinarlo sotto la maglietta color marrone. E chissà cos’altro ancora sotto quella maglietta
“Hai un’aria triste…” mi disse
“Tormentata vuoi dire” mi sfuggì di bocca
“Tormentata?”
Feci per alzarmi ma fu più rapida di me: mise dolcemente una mano sulla mia spalla destra fermandomi a mezz’aria, si abbassò verso di me e poggiò le sue labbra sulle mie.
Come in Matrix, l’intero codice di Hammurabi sganciò una lettera dall’altra, un dittongo da un apostrofo e le parole cominciarono a scomporsi precipitando a terra senza far rumore. Mentre l’alfabeto si smontava in mille linee senza più significato, io mi commuovevo per la tenerezza di quel bacio. Avvertivo però un certo affaticamento a causa della posizione culosporgente-troncoa75 gradi-testadrittainavanti. Quando Ornella si staccò dalla mia bocca temetti per un istante di restare immobilizzato in quella posizione. Invece lentamente riuscii a drizzarmi in piedi e la fissai incuriosita.
Si imbarazzò
“Ti è … dispiaciuto?”
Finalmente sorrisi, le misi una mano dietro la nuca e la attirai a me con delicatezza. Dopo un primo attimo di resistenza, cedette come un veliero che stacca gli ormeggi e levando le vele si allontana in mare aperto.
Allora d’improvviso e senza consapevolezza, mi trasformai in corrente e risacca, la sospinsi con onde di babordo e la riportai a me risucchiandola con vocalizzi di sirene e canti d’amore di balene, divenni borino per inclinare la coffa impalata sull’albero maestro e bitta per assicurare a me con gassa d’amante le sue sartie e cime; a dorso d’orca trascinai la chiglia per burrascose miglia marine e a gigantesca piovra tentacolai quella splendida donna di cui ero già innamorato senza saperlo, per riportarla alla mia bocca.
Non pensai più a chi ero e a chi fossi tu, lasciai libere le mani di venire a cercarti, come se ti nascondessi in una tasca della gonna o nel reggiseno bianco ricamato e invogliai le tue a inocularti nella mia epidermide e – sottocutanea – contaminarti alle cellule per risalire fino al neolitico della mia genia e conoscere i padri dei padri dei miei padri.
Scambiandoci labbra lingue e occhi attraversammo la strada e inciampando nel cane che tentava di attirare l’attenzione, ci inerpicammo tra mille gradini e vicoli pedonali a curva stretta. Affannammo di baci e salita, sfiorandoci e annusandoci: i nuovi territori di pacifica conquista vanno battuti palmo a palmo, studiati, carotati; la terra va assaggiata, auscultata. Fu dunque semina di promesse e carezze, poi fu soltanto il tempo di mietere i frutti dei sospiri, dei “non fermarti”, degli occhi all’amo degli occhi dell’altro…
Da una ampia cengia di via del Friuli sulla quale era appollaiata la terrazza, in fondo quasi all’orizzonte, una striscia orizzontale di mare argenteo al largo si distingueva in una calma color acciaio in cui acqua e cielo erano un unico elemento. Una linea scura lontanissima e sottile, simile a quella che potrebbe tirare una gigantesca matita, era il labile confine tra i due mondi.
Sotto di me si addensava la pineta di Barcola, si riconoscevano tra gli alberi i giochi dei bambini, immobili, la fontana luminosa spenta, somigliante a un enorme occhio circolare; verso destra il buffo disegno dei topolini interrompeva la seria e ordinata architettura del lungomare.
Un’auto con il finestrino abbassato transitò lentamente in direzione del centro città; nella tranquilla silenziosità dell’alba, dopo qualche secondo riecheggiò una allegra voce radiofonica.
Quando il tuo corpo caldo e nudo come il mio mi raggiunse alle spalle e le braccia mi cinsero, mi resi conto che avevo freddo. Ma un brivido più forte dalla nuca si scaricò nei piedi quando mi baciasti la nuca, una due dieci cento volte.
“Guarda il cielo Ornella: è basso. Se allunghi una mano puoi toccarlo”
Le alzasti entrambe, ridendo
“Non ci arrivo... nemmeno in punta di piedi”
“Meno male: è carico di pioggia, se lo smuovi verrà giù un diluvio … guarda che fulmine”
Una saetta zigzagò in alto nell’esatta direzione del Cedas illuminando con un lampo una vasta area ed esaurendosi in una frazione di secondo
Da lontano, dopo qualche istante, rotolò fino a noi, ovattato, il rombo di un tuono. L’aria si caricò di elettricità.
“Puoi restare qui, se non vuoi bagnarti…”. —
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