Guidoni: «Non è solo un sogno, prima o poi su Marte riusciremo ad andare»

Martedì 12 aprile l’ex astronauta al Caffè San Marco di Trieste presenta “Otto passi nel futuro” con Andrea Valente
Umberto Guidoni
Umberto Guidoni

TRIESTE «Andiamo spesso nelle scuole, Andrea Valente e io, per parlare ai ragazzi di spazio, di scienza, di tecnologia. Ogni volta è un'emozione, un'esperienza divertente che si rinnova. Vedo lo sguardo dei bambini, ascolto le loro domande e rivivo il tempo in cui io avevo la loro età e provavo per lo spazio la stessa fascinazione. Con Andrea abbiamo finora scritto quattro libri, a partire da “Martino su Marte”. E mi è capitato già due volte, in una scuola, di assistere a delle rappresentazioni teatrali ispirate a quel nostro libro».

Umberto Guidoni, nato a Roma nel 1954, secondo astronauta italiano dopo Franco Malerba, due volte nello spazio con lo Shuttle (la prima su Columbia nel 1996, la seconda su Endeavour nel 2001, con una breve permanenza sulla Iss, la Stazione spaziale internazionale allora in costruzione), sarà a Trieste domani assieme al suo coautore, il disegnatore e narratore Andrea Valente, per presentare al Caffè San Marco "Otto passi nel futuro", pubblicato da Editoriale Scienza.

Il 12 aprile 1961 vide il primo uomo nello spazio, quell'orbita solitaria di Yuri Gagarin sulla sua Vostok...

«Nel 1961 ero troppo piccolo per ricordare quell'evento. Ma qualche anno dopo, a 10-11 anni, cominciai a guardare il cielo con il cannocchiale che mi aveva regalato mia zia. Poi i primi romanzi di fantascienza, i libri illustrati di astronomia e di scienza. E negli anni della Luna cominciai a rendermi conto dell'importanza del volo di Gagarin. Ma nella mia immaginazione furono Armstrong e Aldrin, i primi uomini scesi sulla Luna con l'Apollo 11, a dimostrarmi che gli astronauti potevano anche essere creature in carne e ossa, non solo il Flash Gordon dei fumetti. Il mito di Gagarin è tuttora ben vivo in Russia, lo circonda una specie di venerazione. Sulla Stazione spaziale, nel settore russo, c'è la sua foto accanto a quella di Konstantin Tsiolkovsky, il grande teorico dell'astronautica. E sono molti i cosmonauti che si chiamano Yuri. Non è un caso».

Vent'anni più tardi, sempre il 12 aprile, decollava il primo Shuttle, capace di atterrare come un aereo. Era il Columbia: avrebbe mai pensato che un giorno ci sarebbe stato anche lei?

«Assolutamente no. Nel 1981 mi ero ormai laureato in fisica, avevo messo nel cassetto i miei sogni di ragazzo e in quegli anni lavoravo all'Enea sulle cellule fotovoltaiche, passando poi all'Istituto di fisica dello spazio interplanetario di Frascati, un laboratorio del Consiglio nazionale delle ricerche. Insomma, mi occupavo sì dello spazio, ma da Terra».

Lo Shuttle ha segnato l'immaginario spaziale di una generazione con le sue 135 missioni in trent'anni tondi, e purtroppo anche con le due tragedie del 1986 e del 2003. È stato l'unico veicolo spaziale che assomigliava alle astronavi della fantascienza...

«È vero. E poi lo Shuttle ha cambiato radicalmente il nostro modo di lavorare in orbita. Ha aperto la strada agli astronauti civili - americani e no - provenienti dal mondo della ricerca. E alle donne. Nella sua grande stiva lo Shuttle ha portato in orbita il laboratorio europeo Spacelab, si è agganciato più volte alla stazione russa Mir e senza lo Shuttle non si sarebbe potuta costruire la Stazione spaziale internazionale, che vede fianco a fianco americani, russi, europei, giapponesi e canadesi. Con lo Shuttle si sono lanciati veicoli interplanetari ed è stato inserito in orbita quel telescopio spaziale Hubble che tuttora ci invia le più spettacolari immagini dell'Universo».

Messo in pensione lo Shuttle nel 2011, oggi si va su e giù dalla Stazione spaziale con le piccole e "archeologiche" capsule Soyuz. Ora pare che i russi stiano finalmente pensando a un veicolo totalmente nuovo. Di che si tratta?

«Se ne sa ancora poco. Il nuovo veicolo sarà tecnologicamente più avanzato e più spazioso, vi troveranno posto quattro astronauti, rispetto ai tre delle Soyuz. Pare che potrà venire impiegato anche per missioni verso la Luna. E Mosca sta sviluppando un lanciatore più potente, che partirà dal nuovo poligono di Vostochny, nell'estremo Oriente russo, non lontano dal confine con la Cina, destinato a sostituire lo storico cosmodromo di Baikonur, nel Kazakhstan».

Pare che la nuova capsula russa si chiamerà Federacija (Federazione). Ma anche gli americani stanno preparando nuovi veicoli...

«Gli Stati Uniti stanno pagando un prezzo oneroso in termini economici e politici, obbligati come sono a portare i propri astronauti sulla Iss grazie alle Soyuz russe. Ma le cose cambieranno. Ci sono le compagnie private che stanno mettendo a punto una serie di veicoli per i collegamenti con la Stazione spaziale. Penso soprattutto a Space X di Elon Musk con la capsula Dragon, per ora utilizzata come veicolo cargo per la Iss ma che nel prossimo futuro avrà un equipaggio. Ma anche ai progetti della Boeing e di Sierra Nevada, con il suo Dream Chaser, un piccolo veicolo alato. La Nasa si concentra invece sul veicolo Orion, simile all'Apollo ma notevolmente più grande, capace di 4-6 posti. Per questo sta realizzando il vettore Sls, più potente del Saturn 5 di von Braun che lanciò gli Apollo sulla Luna. Il nuovo vettore porterà Orion ben oltre l'orbita terrestre, verso la Luna, gli asteroidi e forse Marte».

Il Pianeta Rosso resta l'oggetto del desiderio dei progetti spaziali, anche per la ricerca di tracce elementari di vita, presente o passata. Ma ci arriveremo davvero? E ha visto il film "The Martian" di Ridley Scott?

«Ho anche letto il romanzo, che mi è piaciuto ancora di più. Chi l'ha scritto si vede che conosce bene l'ambiente spaziale, ci ho ritrovato quel modo di affrontare i problemi che è tipico della Nasa. Sì, su Marte ci arriveremo, non so se tra venti, trenta o quarant'anni. E questo nonostante i problemi tecnologici, la minaccia delle radiazioni spaziali, i limiti fisiologici del nostro organismo».

Il film "Interstellar" di Christopher Nolan affronta il problema della ricerca di una nuova Terra quando la nostra sarà sterile e morente. Può essere anche questa una motivazione per battere la via dello spazio?

«Sono convinto di sì. L'uomo ha sempre affrontato l'ignoto, un tempo sugli oceani, oggi nello spazio. E spesso in viaggi di sola andata. Ricordo che un giorno, sullo Shuttle, parlando con i compagni di volo, facemmo un calcolo della distanza che avevamo percorso durante le 200 e passa orbite attorno alla Terra: 10 milioni di chilometri. Peccato non averli percorsi allontanandosi dal nostro pianeta, verso lo spazio profondo...».

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