Gli italiani dimenticati che scelsero di combattere per liberare la Jugoslavia
TRIESTE Uno degli aspetti meno noti della Resistenza riguarda quella dei militari italiani all’estero. Emblematico il caso dei circa 50 mila che parteciparono alla guerra contro i tedeschi nelle file dell’esercito popolare di liberazione jugoslavo. Se è noto il passaggio, dopo l’otto settembre 1943, di molti soldati italiani nel campo delle forze partigiane in Italia (il film ‘Tutti a casa’ con Alberto Sordi, che racconta quella svolta di campo, è del 1960), solo in anni più recenti si è andato definendo il ruolo di resistenti sia dei militi della Divisione Acqui, sia quello, passivo ma non meno significativo, degli internati militari in Germania.
Ma ad essere rimasto sempre avvolto da una cortina fumogena è stato il contributo di quei militari che, di stanza nei Balcani occupati dopo il 1941 dalle potenze dell’Asse, passarono a combattere nelle file della resistenza di Tito. Eppure gli storici ne parlarono. Un convegno sulla partecipazione italiana alla resistenza jugoslava venne organizzato nel 1980 a Lucca dal locale Istituto storico delle Resistenza. In quella circostanza lo scrittore e giornalista Giacomo Scotti riportò le parole di elogio che in diverse occasioni il maresciallo Tito, allora da poco in scomparso, aveva pronunciato verso i partigiani italiani che avevano combattuto nell’esercito popolare di liberazione della Jugoslavia.
Quarant’anni dopo quel convegno, Scotti manda alle stampe un libro, ‘Storie di partigiani senza confini’ (Kappa Vu, 238 pagg., 18 euro) in cui presenta, pescando tra suoi manoscritti inediti, lettere, appunti mai inseriti in precedenti volumi, ritagli di giornale, una “tonnellata di carta raccolta in settant’anni di vita” (Scotti è del 1928), una carrellata di storie individuali di italiani, la maggior parte militari, che presero parte alla guerra di liberazione jugoslava.
“Briciole”, come le definisce l’autore, in confronto ai quindici volumi pubblicati da Scotti su questo tema, ma con il pregio di stimolare l’attenzione verso un aspetto tuttora poco conosciuto e che riguardò decine di migliaia di italiani. Il caso di Bernardo Selaris, sardo di Oristano, è esemplare. Catturato dai tedeschi in Grecia, era riuscito a scappare dal treno che lo stava portando verso un campo di prigionia in Germania. Fuggito nei boschi, aveva incontrato i partigiani jugoslavi ed era stato accolto dal battaglione dello Uzicki Odred, che operava sui monti della Serbia.
Selaris prese parte a tutti i combattimenti contro i tedeschi, e quando anche la Bosnia e quasi interamente la Serbia furono liberate, si arruolò nella milizia del popolo, fino a che rimase ucciso mentre era impegnato in un’azione di ricerca di cetnici sbandati.
Un altro sardo, Giovanni Cuccu, per le sue capacità venne addirittura promosso comandante di un battaglione partigiano. Già prima dell’armistizio Cuccu, di stanza a Metlika, in Slovenia, aveva cominciato ad avere rapporti con i partigiani locali, tanto che passò con la brigata Tomsic nel gennaio del 1943. Al ritorno in Italia, alla fine della guerra, la beffa: condannato per diserzione a due anni di carcere per avere abbandonato il suo reparto.
Il carabiniere Mazzino Ricci, di Carrara, viene addirittura esaltato come un eroe nei canti popolari dei suonatori di gusla montenegrini. Ricci fece parte della brigata Garibaldi all’interno della divisione Italia, che si formò per iniziativa dell'ufficiale Giuseppe Maras. Gli sbandati italiani riusciti a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi furono divisi in quattro brigate, i cui nomi riflettevano le tendenze politiche; quindi la Brigata italiana partigiana "Garibaldi" raccolse i partigiani d'ideologia comunista, la Matteotti quelli d'ideologia socialista mentre le altre due accolsero repubblicani, anarchici, liberali e fedeli al re.
Tra i partigiani non militari Scotti ricorda anche un pilota triestino, un certo Bruno, il cognome è ignoto, che era istruttore della scuola di pilotaggio dell’aeroporto goriziano di Merna. Aggregatosi ai partigiani sloveni, divenne capo istruttore prima di morire, a guerra finita, nel corso di una esercitazione acrobatica.
Questo mosaico di storie è rimasto quasi interamente sotto la polvere dell’oblio. Perché? Per capire i motivi per cui della Divisione Italia e in generale del contributo italiano alla resistenza jugoslava si è sempre parlato poco, bisogna andare oltre la divisione in blocchi post bellica e, da parte comunista, la rottura tra Stalin e Tito.
Tutti argomenti veritieri, ma a guardare più in profondità si scoprirebbe che a essere in causa è il rapporto che l’Italia ha intrattenuto con i Balcani, al centro delle mire espansionistiche italiane ancora prima del fascismo. A tale proposito non perdono di attualità gli studi del professor Teodoro Sala, storico, docente all’Università di Trieste e presidente dell’Isml nel Fvg.
Sala, scomparso una quindicina di anni fa, scriveva che si deve parlare, più che di un passato che non passa, di un passato ibernato. Le conseguenze di questo rapporto difficile tra lo stato italiano e i Balcani emersero anche quando, tra il 1993 e il 1995, l’invio di un contingente italiano di interposizione in Bosnia fu osteggiato a livello internazionale per l’inopportunità che partecipassero all’impresa paesi responsabili dell’aggressione alla Jugoslavia nel 1941: dal governo italiano non si alzò una voce che ricordasse il contributo dei soldati italiani alla liberazione di quel paese. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo