Gli italiani d’Austria costretti alla guerra “Tra due divise”

Le storie dei nonni e bisnonni di tanti triestini, istriani e friulani che dovettero fare migliaia di chilometri per tornare a casa, che dovettero scegliere tra la patria plurilingue in cui erano nati e la nazione che parlava la loro stessa lingua, che si trovarono coinvolti tra i Rossi e i Bianchi della rivoluzione sovietica. Sono questi uomini che animano il libro “Tra due divise” di Andrea Di Michele (Laterza, pagg. 237, Euro 24,00). Si tratta, come spiega il sottotitolo, della “Grande Guerra combattuta dagli italiani d’Austria”, da quei centomila italofoni originari del Trentino e del Litorale, arruolati nelle file dell’esercito imperial regio. Soldati che parlavano la stessa lingua del nemico. Il libro, scritto magistralmente, si avvale di un vasto impianto di indagini negli archivi austriaci e italiani (Di Michele è ricercatore di storia contemporanea alla Libera Università di Bolzano), nei lavori degli storici della nostra zona (Angelo Ara, Marina Cattaruzza, Lucio Fabi, Marina Rossi, i fratelli Todero, Marta Verginella) e nella vastissima massa di lettere, cartoline, diari scritti dai protagonisti dell’immane tragedia, che rendono stati d’animo, dubbi, tormenti, difficoltà e ingiustizie subite da quei coscritti. Per comprendere questi uomini l’autore si chiede: cosa si intende per soldati italiani, in divisa giallonera? Quali categorie si applicano? Basta quella linguistica? Domande fondamentali perché l’identificazione nazionale non è univoca. Lo dimostrano le contestazioni a Trieste del censimento del 1910 inerenti la “lingua d’uso” che portarono a una revisione dei risultati, pure quella contestata.
Secondo Di Michele emerge che erano più sentiti i riferimenti identitari di “secondo livello”, cioè la valle, il paese, la città di provenienza rispetto a quelli della cultura, avvertiti semmai da parte della borghesia, ma non dal proletariato urbano e dai contadini. E poi c’era il problema, soprattutto nel Litorale, dei “misti”.
Una situazione frutto di un impero formatosi “in modo disordinato”, che riuniva territori e popolazioni diversissime. Giuseppe II aveva tentato un’unificazione amministrativa con il tedesco come “lingua franca”, respinta come un tentativo di “germanizzazione”, mentre, per l’autore, era dovuta alla necessità di mettere un po’ d’ordine nella babele linguistica dell’Impero. Un impero in cui le proporzioni tra le varie etnie cambiavano: gli italiani prima del 1866 erano cinque milioni e mezzo, con la perdita del Lombardo-Veneto diventano 780 mila e nel volgere di pochi anni si trovano “pochi e dispersi” perché non c’è contiguità territoriale tra il Trentino e il Litorale. Sempre stando al censimento del 1910 essi rappresentano circa il 2 per cento dei 51 milioni di abitanti dell’Impero in cui le due etnie principali, tedeschi e ungheresi, non raggiungono la metà della popolazione, mentre gli slavi costituiscono il 47,2 del totale. Un mosaico etnico irequieto che trova una momentanea unione allo scoppio delle ostilità, ma mostrerà presto la sua fragilità.
Gli italiani si presentano divisi al fronte. Detta in soldoni: i trentini sono più “fedeli” all’Austria perché contadini e cattolici, come gli istriani dell’interno. Per Trieste il discorso è diverso: la borghesia, specie medio-piccola è, in parte, irredentista, mentre il proletariato non lo è perché è molto “misto”. Vivante, autore del profetico “Irredentismo adriatico”, rileva l’ipocrisia di una borghesia italiana che favoriva l’immigrazione degli slavi come forza lavoro per poi combatterli sul piano nazionale.
Ma al suono di tamburi e fanfare, tra abbracci e lacrime, tutti partono. Gli italiani avvertono subito la diffidenza degli ufficiali austriaci nei loro confronti, sentono la discriminazione, nonostante l’Italia sia neutrale. E la sperimentano duramente quando vengono mandati al massacro in quella maledetta Galizia che tra agosto e dicembre del ’14 inghiotte due milioni di morti, tra essi triestini, istriani, sloveni e croati, trentini e friulani del ’97mo, il reggimento dei “demoghéla” (cioè scappiamo), appellativo che è una fandonia, coniato dagli irredentisti. Anzi i vertici militari austriaci riconoscono il coraggio di questi soldati, però non ammettono che il massacro sia dovuto alla confusione che caratterizza l’esercito. Altro che “paese ordinato”: ordini contrastanti, spesso incomprensibili per la babele linguistica, fuoco amico, assalti insensati. A Trieste le notizie arrivano col contaggocce, ma si capisce che è stata un’ecatombe. Slataper si indigna e diserterà per arruolarsi nell’esercito del Regno. Dal 24 maggio 1915 i provvedimenti contro gli “infidi italiani” peggiorano, i soldati vengono insultati, maltrattati, mandati in missioni pericolose e più faticose, discriminati rispetto a tedeschi e ungheresi. A guerra finita, gli ufficiali austro-tedeschi imputeranno la sconftta alle altre etnie, parleranno di “pugnalata alla schiena” per le diserzioni, ma scrive Di Michele: «Furono soprattutto l’orrore del fronte l’istinto di sopravvivenza, il pensiero della famiglia, l’estraneità alle ragioni della guerra, la sopraffazione subita dai superiori a spingere alla fuga i soldati-contadini non particolarmente sensibili alle questioni dell’identità nazionale».
E poi si apre il capitolo “Russia”. L’impero zarista arriva alla pace separata di Brest Litvosk con una marea di prigionieri al suo interno (2,7 milioni sono austro-ungarici) sugli italiani d’Austria si scatena uno squallido mercato tra i governi russo e italiano, mentre tra i prigionieri si registrano forti tensioni tra fedelissimi a Vienna e irredentisti, e persino cambi di nazionalità nelle dichiarazioni di appartenenza. Comunque la propensione a trasferirsi in Italia è scarsa: su 6194 soldati e 120 ufficiali di nazionalità italiana scelgono di andare nel regno 1630 soldati e 48 ufficiali per le ragioni sopra elencate in merito alle diserzioni. Pochi, soprattutto per paura di ritorsioni contro le famiglie. Ma anche da parte italiana si rileva una diffidenza nei confronti dei connazionali: non viene accettata l’offerta russa di prenderseli tutti, i prigionieri di lingua italiana vengono selezionati e viene chiesta la liberazione per primi degli ufficiali, ritenuti più irredentisti. Sidney Sonnino, ministro degli Esteri del governo Salandra, è molto prudente sulla questione e frena gli entusiasmi degli irredentisti del Regno e che trovano ampia eco sulla stampa. Coloro che in Italia ci arrivano avvertono l’ostilità della popolazione e anche l’arruolamento nel regio esercito non è scontato, anzi.
I tentennamenti italiani e la disorganizzazione russa - il Paese è sconvolto dalla Rivoluzione - saranno la causa di rientri che definire avventurosi è un eufemismo: gli ormai ex soldati gialloneri faranno migliaia e migliaia di chilometri per arrivare sulle coste dell’Asia e da qui rientrare in Europa (gli itinerari nella carta alle pagine 188-189). Alcune migliaia passeranno per gli Stati Uniti, esibiti come testimonianza dell’italianità delle terre che Roma pretendeva, altri attraverseranno il sud Europa, Romania, Bulgaria, Serbia.
L’autore avverte che numeri certi non possono essere riportati, ma è ben vero che furono decine di migliaia, che l’Italia non li trattò bene, se si escludono, come sempre da noi, coraggiosi atti individuali come quelli del maggiore Cosma Manera che riorganizza il più grande campo di prigionia, a Kirsanov, e i ritorni attraverso l’Asia. Va tenuto presente che Manera, con l’aiuto dell’irredentista fiumano, Icilio Baccich, i prigionieri li va a cercare in una Russia sconvolta: un’impresa immane, che affronta situazioni diversissime di prigionieri che si sono rifatti una vita e una famiglia, di altri che combattono con i rivoluzionari e di altri che si sono perduti nel marasma. Ci sarà chi tornerà dalla Russia vent’anni dopo la fine della guerra.
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