Giustizia e Libertà un sogno breve
Marco Bresciani e l’antifascismo azionista

Prima l'esaltante vittoria politica e militare dell'idea democratica contro il fascismo, con la fine della persecuzione e dell'esilio. Poi la bruciante sconfitta alle prime elezioni del dopoguerra, sbancate nel 1946 dai partiti di massa.
Nel giro di un anno soltanto del Partito d'azione non rimase che una tradizione nobile: esempio cristallino della capacità di immaginare la rinascita dell'Italia e dell'Europa dopo il conflitto mondiale, ma allo stesso tempo dimostrazione che un progetto politico elitario - a tratti giacobino - non potesse attecchire nella società italiana, trasformata da totalitarismi e guerra totale.
Il gruppo dirigente azionista divise, così, le proprie strade in partiti e campi d'impegno diversi, pur rimanendo legato da valori e prospettive che ne avrebbero animato l'impegno pubblico individuale per decenni. Il Partito d'azione era morto, ma rimaneva l'azionismo, tuttavia frammentato e incapace di incidere sullo sviluppo politico e culturale dell'Italia compressa dal bipolarismo senza alternanza fra Dc e Pci.
Di questa vicenda, lo storico
Marco Bresciani
racconta gli anni della formazione. Lo fa nel volume
"Quale antifascismo? Storia di Giustizia e libertà"
(pagg. 307, euro 27)
, edito da
Carocci
, che è stato presentato nei giorni scorsi a Trieste.
Torinese di nascita e triestino d'adozione, Bresciani punta lo sguardo su Giustizia e Libertà, movimento antifascista fondato in esilio a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti, cui si aggiunsero in Italia e all'estero uomini come Gaetano Salvemini, Alberto Tarchiani, Silvio Trentin, Vittorio Foa, Carlo Levi, Leo Valiani, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Max Ascoli, Franco Venturi, Cesare Pavese, Norberto Bobbio e Giulio Einaudi. L'autore ne traccia la biografia collettiva, le relazioni, gli appassionati scambi sul futuro del vecchio continente e dell'Italia.
Un pensiero nato negli anni bui della dittatura, nel turbine della crisi che sconvolse l'Europa negli anni Trenta, ma al cui interno Giustizia e Libertà offrì risposte innovative e radicali, intrecciando il meglio della tradizione socialista e liberale, ma passando anche attraverso aspri confronti tra le diverse personalità.
Sciolto nel 1940, davanti all'occupazione tedesca della Francia, il gruppo di Giustizia e Libertà avrebbe creato di lì a poco il Partito d'azione, portatore di un'idea a tratti visionaria della ricostruzione, che non ebbe però la forza di imporsi. Il libro analizza il dibattito di Giustizia e Libertà su fascismo e antifascismo, comunismo, nazione, senso dell'impegno politico e della democrazia.
Allo stesso tempo ne coglie l'attualità: gli echi di quell'elaborazione si trovano d'altronde nel "Manifesto di Ventotene", in cui Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni immaginarono dal confino una federazione europea che fosse garanzia di pace e sviluppo economico-sociale.
Come scrive Marco Bresciani nel suo libro, nel dopoguerra quegli uomini «si sentirono vinti più che vincitori», dovendo constatare con «disillusione e amarezza» che la rivoluzione delle idee e dei costumi lasciava spazio alle continuità e che il rinnovamento delle istituzioni procedeva zavorrato dal trascinarsi delle vecchie mentalità.
L'autore spiega che «Giustizia e libertà fu fucina di nuova classe dirigente, protesa verso un progetto di cambiamento radicale.
Non solo strumento per l'azione militare antifascista, ma al tempo stesso laboratorio di cultura politica, basata su un'idea repubblicana e federalista di libertà e giustizia sociale.
Nel dopoguerra la libertà intellettuale che presupponeva l'appartenenza a Giustizia e Libertà è stata schiacciata dalla militanza nei partiti di massa: quegli uomini furono dispersi, ma i loro carteggi parlano direttamente al presente, oggi che continuamo a interrogarci sulla missione dell'Europa e sul rinnovamento della politica».
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