Giuseppe Sgarbi, confesso che ho vissuto. Con gioia e fantasia

di CRISTINA BENUSSI La necessità di testimoniare ha spinto Giuseppe Sgarbi a scrivere di sé, del suo mondo e anche di noi. Lo ha fatto a partire dai suoi luoghi, Ro ferrarese in particolare, dove per...
Di Cristina Benussi

di CRISTINA BENUSSI

La necessità di testimoniare ha spinto Giuseppe Sgarbi a scrivere di sé, del suo mondo e anche di noi. Lo ha fatto a partire dai suoi luoghi, Ro ferrarese in particolare, dove per sessant'anni, insieme alla moglie, ha gestito la farmacia di famiglia, dove insieme hanno cresciuto i loro figli e dove ancora abita. Si tratta di due ragazzi fuori dal comune, certo, Vittorio ed Elisabetta, così diversi tra loro, professionisti esigenti ed irreprensibili, tanto da essere diventati famosi anche presso il grande pubblico.

Per questo il messaggio che un padre novantacinquenne lancia attraverso il suo secondo romanzo autobiografico “Non chiedere cosa sarà il futuro”, pubblicato da Skira (verrà presentato sabato alle 17 nella Sala maggiore della Camera di Commercio a Trieste, in un incontro organizzato dal Circolo della Cultura e delle Arti in collaborazione con la Camera di Commercio), ha una forza simbolica che trattiene il lettore su pagine piacevolmente scorrevoli e nello stesso tempo dense di osservazioni che obbligano a porsi delle domande. Chiuso il libro, osserva Claudio Magris, che ne ha scritto la prefazione, si vorrebbe assomigliare almeno un po' a questo vecchio signore per certi versi fortunato ma anche artefice della sua serenità.

È vero, ma perché? Giuseppe Sgarbi ha avuto l'occasione di avere incontri importanti, con scrittori, registi, uomini e donne di successo, ma non solo. Ha saputo vivere trasformazioni epocali mantenendo fermo un decalogo interno che aveva come punto di riferimento il rispetto degli altri e il legame con le proprie tradizioni, vissute non tanto come un dovere, ma come ancora di salvezza per lasciar scatenare fantasia e sensi. La gioia di capire un quadro, la capacità di ascoltare le più diverse musiche, l'ammirazione per l'ordine e l'armonia su cui si fonda la bellezza di una poesia, così come della natura, sono disposizioni d'animo che lo portano a dare lo stesso peso, per quanto riguarda la ricerca della felicità, a forme di godimento estetico legato alla fisicità, elemento fondamentale per vivere in armonia con un mondo che è molto più ricco di quanto si pensi: nei suoi racconti si tocca con mano l'emozione del ballo, la ritualità della pesca sul fiume, la contemplazione di un tramonto, l'abbandono al silenzio in cui perdersi.

Prende corpo così una geografia dell'anima e dei luoghi che mette allo scoperto le radici di una storia personale e familiare fusa con quella nazionale, con la guerra in Grecia ed Albania, la disfatta, la fame, i rastrellamenti, e poi la ricostruzione; ma intrisa anche di quella locale, l'alluvione del Polesine e una vita di comunità provinciale, a volte rassicurante, a volte un po' arrogante e invidiosa, ad esempio, del benessere e dell'intelligenza di Vittorio, preso in giro dai ragazzi meno dotati e fortunati di lui. Si susseguono così capitoli introdotti da citazioni famose di Leopardi, Manzoni, Ungaretti, Dante, Pascoli, Noventa, Zurlini, e di Bruno Cavallini, suo cognato, grande maestro di vita, un uomo colto che, pur avendo tutta la possibilità di farlo, non ha mai scritto nulla, ma che ha lasciato ai suoi l'incipit invitante di una poesia che Giuseppe, Nino, Sgarbi condivide, consigliandolo a tutti: «Voglio vivere pescando».

Certo, non è difficile ritrovarsi in “Non chiedere cosa sarà il futuro”, proprio perché non era facile scriverlo. Ci è riuscito un poeta, che è anche farmacista, un pescatore che è anche filologo, un padre di famiglia che è un abile narratore.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo