Giordana: «Yara, una tragedia Ma il cinema deve affrontarla»

di Gian Paolo Polesini
Il sequestro e l’assassino della tredicenne bergamasca Yara Gambirasio — uno dei più inquietanti delitti italiani dello scorso decennio — è raccontato con l’usuale garbo di Marco Tullio Giordana, il regista che meglio plasma la delicata materia dei film d’inchiesta.
Un debutto felice quello di “Yara” su Netflix: subito in cima alla top ten. Nel cast, oltre alla protagonista Isabella Ragonese e ad Alessio Boni, c’è il triestino Lorenzo Acquaviva, volto noto di schermi piccoli e grandi, che interpreta l’avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni. «Il piacere di tornare a lavorare con Marco (fu Junio Valerio Borghese in “Sanguepazzo”, ndr) ha attutito le responsabilità di affrontare una storia delicatissima e dolorosa. Rifuggo dai talk show e conoscevo poco Salvagni, nonostante fosse rilevante un atteggiamento forte: la convinzione dell’innocenza del suo assistito. I personaggi non si giudicano mai, semmai si rappresentano. In carriera non ho mai cercato d’imitarli, bensì di coglierne l’essenza».
Per Marco Tullio Giordana sono quarant’anni dal primo giro di manovella sul set con “Maledetti, vi amerò”, la sua prima impronta sull’impegno civile cinematografico. «Il cinema - dice il regista - ha una potenza suggestiva superiore a un faldone di atti giudiziari. Questo comporta delle responsabilità. Per quanto sia seducente raccontare le vicende controverse, non bisogna mai fare della disinformazione, semmai riportare in superficie i fatti, nudi e crudi senza spettacolarizzazione, senza voyeurismo».
In un’intervista rivela di aver esitato ad accettare la proposta del produttore Pietro Valsecchi. Era perplesso sul fare un film sul sequestro e sull’assassinio di Yara Gambirasio ritrovata «dopo tre mesi di illusioni», scrive lei su Repubblica, a Chignolo Po, nel Bergamasco, a pochi chilometri da casa.
«Un fatto troppo angoscioso, lacerante. Tutti abbiamo sperato che fosse una fuga, di quelle che capitano agli adolescenti. Fu uno shock terribile la notizia dell’assassinio. Non me la sentivo di affrontare questa disperazione, anche pensando al dolore dei famigliari. Ma il teatro deve affrontare anche le tragedie, l’unico modo di farsi una ragione della condizione umana esposta all’ingiustizia e ai traumi».
Lo si avverte chiaramente dalla nitidezza dell’opera. Come del resto dalle sue precedenti, quei viaggi quasi epici nell’inferno di Heysel, nel delitto Pasolini, nell’omicidio di Peppino Impastato, in quel magnifico affresco generazionale de “La meglio gioventù” e nel pandemonio di piazza Fontana. Con quale metodo sceglie le storie da scandagliare?
«Mi lascio ispirare dal quadro d’ambiente di cui un delitto è sempre rivelatore. Il mio maestro Francesco Rosi mi diceva sempre che non bisogna mai essere reticenti, mai disonesti. Che non devi mai cambiare marciapiede se incontri una persona cui hai fatto torto col tuo film».
È stato querelato?
«È successo, ma sono stato sempre scagionato. Mai subito condanne».
Nei suoi lavori di ricerca ha mai scoperto verità tali da costringerla a tacere?
«Ciò che ho capito è quello che si vede nei film. Per l’appunto “mai reticente, mai disonesto” con gli spettatori».
Reazioni a “Yara”, Giordana?
«Moltissime telefonate di soddisfazione. La piattaforma ha fatto uscire il film in duecento Paesi contemporaneamente, una platea sterminata. Ho avuto riscontri di amici dai più lontani angoli del mondo. Una potenza che non ha rivali. Credo che sapranno resistere solo le sale che offriranno qualcosa in più allo spettatore, come il ritrovarsi, il creare appuntamento. Sale come il Sacher a Roma, come l’Anteo a Milano o l’adorabile Visionario di Udine».
Siamo sfacciati a chiederle notizie su progetti futuri?
«Non bisogna mai stare fermi e mettersi al lavoro su più
progetti perché non è detto che tutti vedano la luce. Una cosa però vorrei dirla: mi piacerebbe fare uno spettacolo in teatro su Pier Paolo Pasolini insieme a Luigi Lo Cascio. Lui ha già fatto qualcosa di simile a Udine, uno spettacolo bellissimo. Ecco, mi piacerebbe tornare al lavoro con lui e e naufragare dolcemente in questo mare». —
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