Gino D’Eliso e la sua chitarra: «Donovan e Joan Baez erano la musica di tutti»

Nessuna divisione su “Colors” e “There but for fortune”  gli “stonesiani” amavano il duro “Mother’s little helper”

TRIESTE «La mia famiglia è sempre stata di provata fede democratica, schierata contro la guerra. I miei genitori avevano vissuto il secondo conflitto mondiale: mio padre era stato interprete e traduttore per gli americani a Bari e quando scoppiò la guerra del Vietnam stava dalla loro parte, perché per lui erano i liberatori. Ma era un uomo d’intelligenza e umanità rara e s’è saputo ricredere». Per Gino D’Eliso il ’68 è stato l’ultimo anno di liceo, l’anno del movimento studentesco, l’anno in cui la protesta contro la guerra nel Vietnam ha raggiunto dimensioni planetarie.

D’Eliso, la cui passione per la musica affonda ancora più indietro nel tempo («a quindici anni ho versato i miei primi contributi per alcune serate al dancing Paradiso»), nel ’68 ha 17 anni e frequenta il liceo classico Petrarca. Lì arrivano le notizie da Berkeley, dalla Francia, se ne discute con gli amici. Il Petrarca è la prima scuola superiore a occupare, nel febbraio del ’69, prendendo ispirazione dall’occupazione dei più grandi, quella del ’68 a Lettere, all’Università vecchia.



Come iniziò il suo ’68?

«Iniziò con le notizie del maggio francese, con la sensazione di una pulsione forte che si stava diffondendo, dando origine a un movimento globale. La contrarietà al conflitto del Vietnam fu senz’altro un fattore unificante per quelli della mia generazione: era una guerra sporca e prevaricatrice. L’altro fattore per molti di noi fu la musica. Di quando occupammo il Petrarca all’inizio dell’anno successivo, dopo aver imparato dall’occupazione di Lettere dei più grandi, ricordo il gusto dello stare tutti assieme per la prima volta, al di là delle lezioni di ogni giorno. Ci divertivamo, facevamo le imitazioni dei professori e ci ridevamo sopra».



Anche quella era politica...

«Certo, non c'era più un rapporto di sudditanza nei confronti degli insegnanti, che potevano essere per bene oppure no, che comprendevano oppure no i nostri atti e le nostre rivendicazioni. Al Petrarca ho avuto insegnanti illuminati, ricordo la professoressa Burian di storia e filosofia, che quando seppe che avevamo occupato telefonò a me e a un mio compagno dicendo: “Perché non mi avete avvisato? Avete bisogno di alleati anche all’interno del corpo insegnante”. Noi sprofondammo, perché l’adoravamo: qualche anno fa la nostra classe si è riunita per darle l’ultimo saluto. Il movimento generò un’apertura sociale straordinaria, offrì un metodo per riscoprire la collettività, la ricchezza delle persone».


Dopo il Petrarca proseguì all’Università?

«Mi iscrissi a Filosofia nel ’69, per poi laurearmi con una tesi in psicologia applicata. Allora non c’era la facoltà ma l’Istituto di Psicologia, con a capo il triestino Gaetano Kanizsa, una personalità eccezionale. La prima occupazione dell’Università grande fu per noi matricole il momento della presa di coscienza politica attraverso il movimento studentesco. Quell’anno m’iscrissi all’Unione dei comunisti italiani marxisti leninisti, un’organizzazione filo maoista, ma non ressi molto: alle riunioni sembrava di stare al catechismo. Perciò prima rientrai nel movimento generico come cane sciolto e dopo m’iscrissi al Pci: per me, e non solo, erano anni di ricerca di un’identità politica. Dopo la laurea, proseguii gli studi con un dottorato a Urbino. La mia tesi fu piuttosto sperimentale: mi aiutarono molto i colleghi di mia sorella, psicologi basagliani. Il titolo è “Implicazioni socio politiche del consumo di droga nei movimenti di rivolta negli Stati Uniti e in Europa”».

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Che cosa sostiene?

«Che anche il consumo di droga ha implicazioni socio politiche. In quegli anni c’era la droga fascista e quella di sinistra. Negli Usa fumavano tanto e facevano uso d’allucinogeni: Lsd, psilocibina, peyote. Gli americani non avevano una controparte fascista, in Italia invece c’era una distinzione netta: da noi giravano canne e acidi, mentre le anfetamine, droghe aggressive, erano patrimonio della destra. Le stesse sostanze venivano utilizzate in Vietnam: anfetamine per mandare in combattimento i soldati, canne e alcool per sedarli dopo le battaglie».

Quale fu la colonna sonora di quel periodo?

«Erano due i filoni che andavano tra i gruppi dell’ambiente musicale triestino, che era molto vivace: c’era quello dichiaratamente politico, di Bob Dylan e Joan Baez, e quello che non lo era esplicitamente, ma sfornava testi molto aggressivi e ribelli. Lasciando alle spalle i Beatles, ormai edulcorati, molti come me erano passati ai Rolling Stones. Indosso ancora oggi la maglietta di Keith Richards che dice “Non sto diventando vecchio, mi sto evolvendo”».

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E la musica italiana?

«A parte alcune cover penose c’erano lavori significativi: m’innamorai per esempio di “Mille chitarre contro la guerra” di Umberto Napolitano, una canzone contro il conflitto del Vietnam. La sentii una sera su Radio Rai e andai subito a comprarmi il 45 giri. Apprezzavo “La bandiera di sole” di Fausto Leali e le canzoni di Fabrizio De André. Avevo, come molti di noi, un rapporto mistico con Radio Lussemburgo, che trasmetteva solo dalle 23 all’alba ed era l’unica stazione a mandare in onda musica americana e inglese. Stavamo alzati tutta la notte sintonizzati su onde medie con carta e penna, per prendere nota dei testi e delle melodie. Ricordo ancora lo shock che provai quando sentii “My generation” degli Who: rimasi folgorato dal loro rock. Durante le occupazioni mi presentavo con cappello e chitarra e la colonna sonora che metteva d’accordo tutti puntava su “Colors” di Donovan (cantautore e musicista scozzese definito “il Bob Dylan” britannico, ndr) e “There But For Fortune” di Joan Baez. Per noi stonesiani c’era la durissima “Mother's Little Helper”, brano caustico e dissacrante».

Come ci si vestiva?

«I Beatles facevano tendenza. Quel loro look inappuntabile a base di cravattina stretta, giacchette con collo di velluto, stivaletti e cappellino alla John Lennon era per molti di noi il modello cui ispirarsi. Ricordo che il cappellino me lo ordinò mio papà da Borsalino, senza sapere che nei negozi di nautica avrebbe potuto trovarne a poco prezzo uno da marinaio molto simile. L’evoluzione in senso psichedelico dell’abbigliamento dei Fabulous Four, con le cravatte colorate e i pantaloni svasati, arrivò dopo. Nel ’68 era molto usato anche l’eskimo, cui Guccini dieci anni dopo dedicò una canzone, rigorosamente verdone e inviso ai “fighetti”. All’Università andavamo “sbrisi”, vestiti il peggio possibile. Molte ragazze indossavano il poncho sudamericano o il sari indiano, noi maschi rimpiangevamo lo stile alla Mary Quant, con minigonne e stivali a mezza coscia».

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Che evento segnò la sua vita in quel periodo?

«Dopo il diploma nel ’68 partii con un amico per il mio primo vero viaggio senza genitori. Andavo bene a scuola, ma la maturità la feci piuttosto male: m’incartai all’orale, ero già con la testa al viaggio. Senza aspettare i risultati dell’esame presi l'aereo e raggiunsi il mio amico, che mi attendeva a Londra. Andammo a trovare la mia fidanzatina di allora, che studiava in un college nel Suffolk: dopo tre minuti che eravamo lì mi aveva già mollato. Perciò con il mio amico salutammo il Regno Unito e con la sua auto girammo praticamente tutta l'Europa, mangiando pochissimo e risparmiando per la benzina. Un giorno, in stazione dei treni ad Amsterdam, telefonai a mia madre su incoraggiamento del mio amico e lei mi disse che ero stato promosso. Mollai un urlo che risuonò per tutta la stazione: fu una specie di liberazione. I miei genitori sono stati sempre molto aperti e mi hanno educato senza pormi troppi vincoli: durante l’occupazione del Petrarca mio padre e quello del mio amico venivano a portare a scuola i krapfen per tutti».

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