Giancarlo Spirito, da Trieste alle jam session di Madrid: «Il jazz me lo porto da un’altra vita»
TRIESTE Originario di Caserta, classe ’64, il papà militare fu mandato in caserma a Opicina: «Quando arrivammo qui io avevo quattro mesi: insoma son triestin dai!», precisa subito il batterista e percussionista Giancarlo Spirito. A Trieste si è formato e ha vissuto le prime esperienze musicali, poi la vita l’ha portato in Spagna dove risiede ormai da 25 anni, raccogliendo grandi soddisfazioni in una carriera soprattutto nel jazz, ma anche musica etnica (un amore dichiarato per la musica araba e indiana) e nella tribute band di Elton John, The Elton Show, creatura del triestino-australiano C.J. Marvin (Carl John Marvin Benedetti).
Mai avuto dubbi sullo strumento?
Non è un luogo comune: è una vocazione, non lo scegli tu. Ci nasci. In casa mia la musica non era presente. Sono buddista e credo fermamente nella reincarnazione, quindi mi piace pensare che me la sono portata dentro già da qualche vita passata.
Quando cominciò?
Avrò avuto dieci anni e nel magazzino della chiesa della caserma a Opicina dove prestava servizio mio padre c’era una batteria, andavo a suonarla. Mi sentì un soldato e venne a darmi lezioni, si unì un altro con la chitarra elettrica, ho dei ricordi di lui che la suonava con i denti come Jimi Hendrix!
Il primo concerto?
A 14 anni, con il gruppo del liceo Oberdan, abbiamo suonato al Teatro dei Salesiani “The Carpet Crawlers” dei Genesis. Poi inserivamo in scaletta brani della Premiata Forneria Marconi, del Banco del Mutuo Soccorso… Il bassista era Fulvio Varin che poi avrebbe suonato nella Witz Orchestra, Willy Perco alle tastiere e Fulvio Vardabasso, oggi un bravissimo chitarrista jazz. Verso i 16 anni è arrivato il jazz e le cose sono cambiate. Ho frequentato quella che ora si chiama Scuola di Musica 55 ma che all’epoca era ancora Centro Musicale Triestino in Via San Francesco, con il grandissimo Gabriele Centis che per me è come un fratello, e sono pian piano entrato nel giro dei professionisti.
Come passò dal rock al jazz?
L’amico, l’intellettuale del gruppo, quello che aveva gli occhiali, i capelli corti e parlava poco mi molla due dischi e mi dice: ascolta. Uno era del batterista americano Max Roach e l’altro di Art Blakey and The Jazz Messengers e succede che non capisci niente di quello che stai ascoltando però ti scatta qualcosa dentro e vuoi capire. Lì ho voluto cominciare con la batteria jazz che è stato un po’ il leitmotiv della mia carriera. Perché ho fatto e continuo a fare cose diversissime (adesso sto suonando musica indiana con il sitar, percussioni etniche, la darbuka egiziana), amo tutta la musica, però la batteria jazz la considero un po’ la mamma. Ho avuto un percorso di tanto lavoro e studio, i seminari di Siena Jazz, le lezioni con Centis, a Milano con il guru della batteria italiana Lucchini.
La Trieste musicale anni ’80 e ’90?
Non c’era granché, però noi lavoravamo duro. Mi ricordo il Tor Cucherna, dove facevamo tre serate a settimana e mi sono davvero fatto le ossa. Con la fantastica Anna Lauvergnac che è stata la voce della Vienna Art Orchestra, musicisti americani come il chitarrista Bruce Forman, il trombettista di New York Jimmy Owens, una cantante brasiliana… Tutto con l’organizzazione del bassista Roberto Prever e del batterista degli Area Giulio Capiozzo. Erano anni favolosi in una Trieste dove non c’era niente e noi ce lo siamo inventati.
Nel 1996 si trasferisce in Spagna.
Volevo andare via dall’Italia e non so perché. Forse è un’altra di quelle cose che non scegli tu. Avevo amici negli Stati Uniti, al conservatorio di Graz ma poi ho incontrato una ragazza spagnola, ci siamo innamorati e abbiamo cominciato a vivere insieme, lei doveva tornare a Madrid e l’ho seguita. È una bella capitale, il paese è meraviglioso. All’inizio non è stato facile. A Trieste davo lezioni di batteria ed era un guadagno quando magari non c’erano tanti live, quindi arrivato in Spagna andai in una delle principali scuole di musica con il mio curriculum e la segretaria mi disse: “Va bene, lo metta insieme agli altri” e c’era sul tavolo una pila alta praticamente un metro e mezzo, di musicisti pazzeschi. Quindi un impatto duro. La cosa positiva dei grandi centri sono le jam session, di sera fai il giro dei club e lì ho conosciuto artisti molto interessanti.
Ha mantenuto il filo con Trieste?
Grazie a Centis siamo venuti al TriesteLovesJazz almeno quattro volte con una band di musica etnica, i Black Market, e con il gruppo di flamenco Jazz Hondo. Dovremmo tornare quest’estate ma non sappiamo ancora nulla. L’ultima volta è stata due estati fa, sto impazzendo senza il mare. Mi manca la gastronomia. I miei luoghi del cuore: Cavana, Piazza Unità, Rive, l’ex sala prove a Barcola. Mi mancano gli amici, ogni tanto diventi nostalgico dell’adolescenza e della gioventù, però cerco di non indulgere. Meglio restare attivi sul presente.
Il lockdown in Spagna?
È stato terribile. A Madrid da circa un mese si sta aprendo e sto suonando di nuovo. Visto il coprifuoco si stanno inventando delle cose strepitose: le matinée nei teatri, spettacoli alle 8 di sera… si fa il pieno (nei limiti stabiliti). La gente risponde, ha voglia di uscire, vuole la musica dal vivo che è il sale della vita e sono sicurissimo che quando finirà tutto e torneremo alla normalità ci sarà una nuova movida e tutte le sere si riempiranno i club e i teatri. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo