Giacobbo: «Vi racconto il soldato che nel 1983 ha salvato il mondo»

di PIETRO SPIRITO
Il 23 settembre del 1983 un uomo solo ha salvato il mondo dalla catastrofe nucleare. Quell’uomo si chiama Stanislav Evgrafovich Petrov, è un ex ufficiale russo in congedo che oggi vive nell’indigenza in un piccolo appartamento alla periferia di Mosca, e all’alba del 23 settembre del 1983 ebbe la prontezza di non obbedire alla procedura d’emergenza, quando sugli schermi del computer del sistema difensivo nel bunker della città militare di Serpukhov 15, vicino Mosca, vide comparire la traccia di cinque missili nucleari sparati dagli Stati Uniti. Quel giorno Petrov avrebbe dovuto subito avvisare telefonicamente i suoi superiori azionando la catena di comando che avrebbe portato l’Unione Sovietica a contrattaccare senza indugio, dando il via alla guerra nucleare totale. Ma qualcosa glielo impedì: c’era la possibilità che si trattasse di un errore del satellite, e Petrov non fece nulla, aspettando con il fiato sospeso i trenta minuti necessari ai missili americani per colpire i bersagli in Unione Sovietica. E quando i trenta minuti trascorsero senza che nulla accadesse, Petrov si rese conto di aver avuto ragione: era stato un falso allarme, l’infallibile satellite era stato «ingannato da una rara congiunzione astronomica fra se stesso, la Terra e il Sole; e da nubi ad alta quota che interferirono con il suo segnale». Petrov quella notte salvò il mondo dalla catastrofe, ma ne pagò le conseguenze: aveva disobbedito agli ordini, l’esercito lo punì e lo mise da parte.
A togliere Petrov dall’ombra raccontando la sua incredibile vicenda ci pensa ora Roberto Giacobbo, vice direttore di Rai2 e conduttore della trasmissione Voyager, che ha conosciuto e intervistato l’ex ufficiale sovietico e a lui ha dedicato il suo ultimo libro, scritto assieme a Valeria Botta, “L’uomo che ci salvò dall’apocalisse” (Edizioni Rai Eri, pagg. 238, euro 18,00). Il libro, che si legge come un thriller, sarà presentato venerdì, alle 19, nel tendone della Fincantieri News Room in piazza della Borsa a Trieste nell’ambito di Link Festival.
Giacobbo, lei ha conosciuto e intervistato Petrov. Cosa lo spinse davvero a disobbedire?
«Petrov aveva frequentato la scuola di strategia - risponde Giacobbo -, e ha ragionato da stratega e non da militare di prima linea. Gli era sembrato impossibile che l'America attaccasse l’Unione Sovietica con soli cinque missili nucleari, strategicamente non aveva senso. E poi ci ha detto chiaro e tondo che non voleva essere lui l'uomo che avrebbe scatenato la terza guerra mondiale».
I venti di guerra che spirano tra Stati Uniti e Corea del Nord rimandano dritto alla Guerra fredda. Dobbiamo sperare in un altro Petrov?
«Non mi occupo di politica, ma di storia, però credo che la situazione attuale sia più organizzata, diciamo meno dipendente da un solo uomo, come nel caso di Petrov al tempo dell'Unione Sovietica».
La figura di Petrov fa da specchio a quella di Thomas Wilson Ferebee, l’uomo che da bordo del B29 Enola Gay lanciò l’atomica su Hiroshima. Disse di non essersi mai sentito colpevole per quel gesto...
«Si tratta di due compiti militarmente diversi: Wilson Ferebee sapeva di dover sganciare una . bomba potente, come un qualsiasi altro aviatore in quegli anni di guerra, ma non sapeva quali sarebbero state le conseguenze, non glielo avevano detto. Mentre Petrov era perfettamente a conoscenza di cosa sarebbe successo se avesse obbedito alla procedura. C'era una consapevolezza diversa».
Quanti Petrov ci sono nella Storia, e perché se ne stanno nascosti o se ne parla poco?
«Perché la storia la scrivono i vincitori, e perché quello che avviene al riparo del segreto militare si viene a sapere solo quando tutto cambia. Si pensi ai Templari, che sono stati precursori di tante cose, erano un circolo chiuso e c'è voluto del tempo per conoscere le loro azioni. I militari agiscono sempre dietro una struttura di protezione enorme. E poi si sa, nella Storia è più facile conoscere i non-Petrov che i Petrov. Sappiamo benissimo chi sono e cosa fanno quelli che scatenano i conflitti ma sappiamo poco e niente degli eroi fantasma che agiscono per il bene».
Compito del giornalista è scalzare misteri e svelare cosa c’è dietro ai fatti. Qual è il limite?
«L'importante è non rompere un equilibrio a danno della comunità. Se devo dare una notiza che, per dire, può compromettere una trattativa di pace è meglio aspettare».
Che cosa le hanno insegnato tanti anni a caccia di veri o presunti misteri con Voyager?
«Che appunto bisogna sempre mantenere un equilibro. La scienza non può spiegare tutto, così come non è sempre vero che dietro ciò che non si conosce ci sia l'imbroglio. Il detto “non vedo non credo” è ormai superato dai tempi. Oggi non posso più dire che se non vedo non credo. E allo stesso tempo è sbagliato credere e basta, senza sottoporre certe convinzioni a verifica».
È vero che viene a girare una puntata di Voyager a Trieste? Quali misteri insegue?
«Sì, è vero, saremo a Trieste, ma non posso dire altro. Noi svolgiamo sempre un lavoro fatto di idee e proposte».
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