George Coyne, astronomo gesuita faceva dialogare scienza e fede
Per ventott’anni era stato l’“astronomo del Papa”, un appellativo che gli era rimasto cucito addosso anche quando, nel 2006, aveva lasciato la direzione della Specola vaticana a Castel Gandolfo. Ma padre George Coyne, il gesuita statunitense cui va il merito maggiore della riabilitazione di Galileo, non aveva smesso di lavorare nonostante il tumore alla vescica contro il quale ha combattuto a lungo. Fino a martedì scorso, quando si è arreso al male all’Upstake University Hospital di Syracuse, New York. A gennaio aveva compiuto 87 anni.
Gesuita e astronomo, dunque. Sulla scia del grande Georges Lamaître, il gesuita e cosmologo belga che novant’anni fa era stato tra i primi a intuire l’espansione dell’Universo. Nato a Baltimora, entrato nella Compagnia di Gesù a 18 anni e ordinato sacerdote a 32, diploma in matematica e in filosofia, poi dottorato in astronomia e laurea in teologia, padre Coyne è stato un abile manager della scienza, imprimendo nuovo impulso alla Specola vaticana grazie alla succursale osservativa realizzata sul Monte Graham, in Arizona.
Convinto sostenitore della necessità di tener separato lo studio del mondo fisico dal discorso su Dio, eppure promotore del dialogo tra scienza e fede. Fece parte della commissione che spinse Giovanni Paolo II a riabilitare Galileo, accettava l’evoluzionismo darwiniano e attaccava quel “disegno intelligente” che piace ai creazionisti, avrebbe voluto dalla Chiesa un atto di pentimento per la condanna al rogo di Giordano Bruno.
Una sorta di “gesuita laico”, insomma. Certe sue affermazioni (“Dio ha lasciato all’Universo la libertà di evolvere in modo indeterministico”) hanno fatto inarcare le sopracciglia alle tonache conservatrici della Curia romana e gli hanno attirato sommesse accuse di eresia da parte dei cattolici tradizionalisti. Ma era pur sempre membro della prestigiosa Pontificia accademia della scienze.
Padre Coyne era molto amico di Margherita Hack, tra loro c’era reciproca stima e simpatia. In fondo, anche lui era un astrofisico stellare. Era venuto più volte a Trieste. Ricordo una sua conferenza divulgativa all’Università e soprattutto la sua partecipazione ad alcune di quelle Conferenze sull’evoluzione chimica che si sono svolte al Centro di fisica teorica, mettendo a dialogare astrofisici e biochimici, planetologi e geofisici. E ricordo come padre Coyne alternasse l’elegante clergyman indossato per il suo talk scientifico con la disinvolta mise in T-shirt e calzoncini corti sull’assolata terrazza dell’Adriatico Guest House di Grignano.
Durante l’ultimo di quegli incontri all’Ictp, nel 2003, chiesi a padre Coyne se si riconoscesse nel protagonista d’un celebre racconto di Arthur Clarke (“La stella”): l’astrofisico gesuita che, a bordo di un’astronave in esplorazione attorno a una stella lontana, scopre con angoscia come la luce che guidò i Magi alla Grotta di Betlemme fosse stata in realtà l’esplosione di quella stella che aveva incenerito gli abitanti d’un suo pianeta. Mi rispose, in quel suo italiano simpaticamente americanizzato: «Conosco bene Clarke e conosco quel racconto. Ma io non ho mai sentito antitesi tra l’occuparmi di scienza e l’occuparmi di teologia. Sono due campi diversi del sapere. Troppe volte la Chiesa ha voluto interferire nelle cose di scienza. Provocando spesso grossi guai».
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